Gli artisti invitati sono tanti, quasi quarantacinque. Tra il contemporaneo e il moderno, tra l’Europa e il Nuovo continente. Per questi ospiti, Palazzo Cavalli Franchetti è in pieno risveglio. Gli specchi risplendono, gli arredi sono in perfetto stato e le superfici, come dovere, luccicano. Ma, al primo giorno d’apertura al pubblico, ben pochi sono gli avventori fra le sale.
E dire che
Glass Stress, oltre a vantare una lista di artisti importanti, ha scelto come proprio vessillo un’opera di richiamo per Venezia, un’opera firmata
Jan Fabre: un enorme piccione violaceo, dalle trasparenze metalliche, che sovrasta e accompagna, in campo bianco, la promozione della rassegna per tutta la laguna. Colophon, inviti, cartelle stampa, siti web e diversi supporti media della 53. Biennale veicolano da alcune settimane un lavoro che porta in sé la leggerezza, il simbolo e il destino. Queste tre caratteristiche, però, non rispecchiano appieno l’affollata rassegna.
Fra sorprese giĂ viste (vedi le
granades di
Mona Hatoum,
Cragg,
Arp,
Arman,
Rauschenberg,
Chen Zen e gli stessi ossari di Fabre) e piacevoli déjà -vu (
Buren,
Albers,
Ray,
Jodice e
Kosuth) si nascondono anche strane novità , forse poco centrate rispetto alla delicatezza del tema scelto, come il filo di neon e “carrozzeria” di
Federica Marangoni e l’inutile
In Bloom di
Soyeon Cho.
Purtroppo, come c’era da aspettarsi, in questa piacevole esaltazione estetica delle caratteristiche siliciche sono solo alcune le opere che realmente emergono e rimangono ben scritte nel taccuino mentale di questi giorni di kermesse. Se il vetro, infatti, mantiene ben visibile – attraverso le proprie capacità organolettiche – tanto il suo potenziale plastico quanto la propria tradizione artigiana, non sempre i contenuti (il simbolo e il destino) ne accompagnano le forme. Da ricordare, dunque, restano solo alcuni oggetti.
Nel percorso di visita si potranno allora osservare e memorizzare con un discreto piacere, nell’ordine, una scala di cocci firmata da
Pancrazzi; alcuni lingotti di vetro posti in scala cromatica, composti da
Rene Rietmeyer; lo spettacolare, teriforme
Unicorn di
Koen Vanmechelen (installato presso la Scuola grande della Confraternita di San Teodoro); l’enigmatico
Self Portrait di
Marya Kazoun; le unghie di cera e vetro di
Giuseppe Penone; i delicati vasi di
Barbara Bloom (le
Flaubert Letters II del 1987-2008) e le gabbie di
Graham.
Da evitare o, se proprio incuriositi, da fruire portandosi le mani alle orecchie, il tintinnante video in 3d di
Hye Rim Lee, dal titolo
Crystal City Spun.
Se dunque l’intento generale di questa rassegna resta quello di mettere in luce la soavità del vetro, la sua proprietà di attrattore e trasmettitore di luce e la capacità di mantenere impastate letteratura e lettura del mondo circostante, non sempre chi propone una ricerca sull’argomento è in grado di segnalare dei veri ritrovati artistici, portatori d’invenzione, di sapienza artigianale e d’intimità simbolica.