Il segno, secondo Sant’Agostino, può essere
naturale, non creato cioè per significare qualcosa, ma riconoscibile tramite l’esperienza;
artificiale, concepito apposta per la comunicazione; oppure
iconico, e sono i segni indicali, simboli o codici. Nel primo caso il significante è simile al significato, nel secondo c’è una connessione fisica con il significato e, nel terzo, la relazione tra significante e significato è arbitraria.
Qui, fra terra, acqua e cielo, nella suggestiva location che ospita le installazioni site specific di
Richard Nonas e di cinque giovani artiste, la triplice classificazione semantica si fonde, si accavalla, s’interseca. Intento comune è una ricerca in cui pathos, simbolo, grado emotivo e indagine formale prendono parte alla nascita di opere “
delicatamente struggenti, la cui carica poetica trova ragion d’essere nella relazione con l’ambiente e la storia che lo accompagna”, come scrive Martina Cavallarin.
In quest’ottica, il misticismo e il mito legati all’immagine di Sant’Elena (scoprì la vera Croce di Cristo, insieme a tre chiodi della crocifissione donati al figlio Costantino per la corona ferrea) e a questi luoghi che in passato conservavano le reliquie della santa stimolano intense suggestioni di carattere religioso e non.
L’esito minimalista, pur vibrando di seduzioni attuali, affonda le proprie radici nella storia e nella leggenda. A partire dalla scultorea installazione di Nonas, struttura essenziale di cordoli in cemento, il cui modulo-base in sequenza seriale privilegia il rapporto tra lavoro e ambiente.
In dialogo con le opere dell’artista newyorkese, una ricerca tutta al femminile sulla figura di Sant’Elena. Ecco allora installazione e performance di
Marya Kazoun, che con l’utilizzo di materiali come vetro, latte e tessuto mette in scena una cronaca dolente e salvifica; oppure il cubo di cristallo
Minjung Kim, che emerge e sparisce nell’acqua.
E ancora, l’opera di
Maria Elisabetta Novello, che racchiude grandi quantità di cenere, mischiata ad aghi e chiodi, in teche di plexiglas. È materia di ricordi, residuo di combustioni a-temporali, che sfiorano la sacralità di un atto liturgico. Il silenzio che penetra queste vuoti si cristallizza in universo immobile, gravido di virginale intangibilità.
Svetlana Ostapovici, sulla linea della denuncia e della ricerca, si serve di fotografie documentaristiche e mosaico. Infine,
Gaia Scaramella con l’installazione di una gigantesca sfera geodetica, “
che sembra quasi ripescata dall’abbraccio primordiale del mare”, suggerisce l’artista. Al suo interno, matrici zincate di precedenti incisioni, con riferimenti alla leggenda di Elena, e alcuni ex voto.
Pezzi effimeri, che nel tempo sono destinanti a staccarsi dal filo che li sostiene. In un ciclo che affoga nella metafora passato-presente. Depositandosi come frammenti di memoria sul fondo dell’acqua.