Il mito è da sempre al di fuori del flusso temporale. Nell’antichità costituiva lo spazio di un’origine ancestrale, alla base del presente e della storia. Oggi i miti non fondano la realtà, ma la fanno conflagrare, ne astraggono la sostanza fino a costituire entità intangibili, avvolte da una patina di eternità.
È da qui che parte la mostra di
Marc Quinn (Londra, 1964), evento collaterale della 53. Biennale di Venezia. I suoi miti hanno il corpo e il volto di Kate Moss, che nelle sue pose contorsioniste esprime la bellezza di una venere moderna o le incantevoli seduzioni di una novella sirena in oro a 18 carati. Sculture che affrontano il paradosso di una figura che è sostanza separata dalla persona che la incarna, simulacro che modifica la realtà dell’originale, facendone un simbolo in carne e ossa, fatto a immagine e somiglianza della propria stessa immagine.
Al pari di quanto avviene negli altri ritratti dell’artista inglese, che raffigurano persone reali nelle levigate superfici del marmo di Carrara.
Come
Thomas Beatie, donna rimasta incinta dopo aver intrapreso una cura ormonale per cambiar sesso. Oppure
Alison Lapper Pregnant, che rovescia la frammentata monumentalità delle sculture antiche nelle forme e nelle proporzioni del corpo di una donna focomelica.
Gggtddaagttdaagtatg prende il titolo da una sequenza casuale del Dna e ritrae in bronzo il figlio dell’artista. Qui il soggetto raffigurato ritorna semplice modello, per affrontare la tematica della temporalità dell’esistenza. Con il torace cinto da una catena di perline che riproduce la struttura del codice genetico, il bimbo procede con passo sicuro, travolgendo ciò che incontra e aprendo crepe sul pavimento. È uno sguardo sul futuro dell’uomo e sulle sue capacità di adattamento, e nella sua ingenua forza distruttrice si avverte un omaggio alla nietzschiana innocenza del divenire.
Nelle sale della Casa di Giulietta, i colori dei
Flower Paintings e i fragili fiori in bronzo laccato diventano un’occasione per riflettere sulla caducità del mondo naturale. Manifestazioni d’una bellezza effimera quanto sgargiante, che nei primi piani su pistilli e corolle rivela una matrice sessuale da reinterpretare come
memento mori.
Nei
Love Painting, Quinn avvicina una dimensione ulteriore, sensibile a quella “purezza di sentimento” espressa sulle pareti della casa di Giulietta. Disponendo alcune tele bianche all’ingresso, l’artista inglese ha lasciato che i visitatori si esprimessero liberamente, per poi appropriarsi dell’immediatezza dei loro graffiti. Semplici frasi a pennarello, dichiarazioni su post-it, coppie di nomi all’interno di cuori ripropongono l’ingenuità di un’unione che si vuole immortale, al di là di qualunque possibilità reale. Celebrano l’inganno estremo, che si crede eterno e lascia credere nell’eternità.
Proprio come suggeriva Leopardi prima di accanirsi contro la Natura matrigna, attraverso uno sguardo concentrato sull’impermanenza e sul nulla che fonda l’esistenza, Quinn apre a una sensibilità post-nichilista. In grado di guardare con tenerezza agli inganni dell’amore.