Nel ‘49, nei locali dell’Ascensione in Piazza San Marco, espone per la prima volta Ennio Finzi che, assieme a Franco Batacchi, Ferruccio Gard, Riccardo Licata, Gianmaria Potenza, Santorossi, Livio Seguso e Ottorino Stefani, organizza una mostra per opporsi allo stereotipo dell’arte e delle sue manifestazioni veneziane come vetrine internazionali. Lo scopo è quello di creare, tra campi e campielli, un centro di produzione culturale degno della sua grande storia, un evento che riunisca autori di primo piano operanti in città, rappresentativi della molteplicità della ricerca artistica coeva.
Esattamente cinquant’anni dopo, in occasione della 53. Biennale, l’evento si ripropone: ecco dunque
Porto d’Arti, rassegna che mette insieme quegli stessi otto autori.
La sede di questo strano ritorno è la restauratissima chiesa sconsacrata di Santa Marta. Un edificio storico del 1200 a due piani, che si trova quasi esattamente al centro del porto della città, luogo tecnicamente deputato all’approdo, allo scambio e al confronto fra culture diverse.
Porto d’Arti nasce dunque di riflesso: come luogo d’incontro di artisti che possiedono formazioni diverse, differenti modi di vedere e divergenti capacità di fermare l’esperienza della vita (e della luce). L’iniziativa, in verità, è stata realizzata per due motivi: il primo intento è stato quello di valorizzare la sede della mostra, che da poco ha subito un ripristino esemplare; in secondo luogo, proseguire la tradizione analitica di Luciano Caramel, opponendosi strenuamente all’esibizione programmata e scontata dell’arte.
Ogni artista ha così contribuito a questa strana atmosfera di pre-contemporaneità, installando dieci lavori ciascuno; sculture e installazioni che sono collocati tanto all’interno della chiesa quanto negli spazi circostanti.
Nelle sale basse spiccano le tele sfumate e sincopate di
Ennio Finzi, poste accanto ai dipinti policromi di
Gard e alle sculture rigonfie e vivide di
Livio Seguso; ciuffi di silicio soffiato che fanno da lente d’ingrandimento alle stampe segmentate di
Santorossi e alle installazioni architettoniche (composte di marmi rossi e neri) a opera di
Gianmaria Potenza.
Non c’è nulla che accomuni gli otto autori. Né poetica né soluzioni estetiche sembrano creare una solida linea tematica che sostenga le trame di quest’evento. Ma le capacità di artisti che hanno lavorato al fianco dei maggiori rappresentanti dell’astrattismo e dell’informale creano un intrinseco legame con la materia dell’apparire. Dalle tele di
Stefani alle tavole ripetitive e ripetitrici di
Batacchi, ciascuno interagisce con l’ambiente come se fosse un luogo mentale. Dove smettere i mondi, per creare universi.