Un forte legame ha unito fin dall’inizio degli anni ‘60
Robert Rauschenberg (Port Arthur, 1925 – Captiva Island, 2008) alla città di Venezia e alla Fondazione Guggenheim. Nel 1961, il Guggenheim di New York espose infatti le sue opere in due mostre. Nel 1964, Rauschenberg vinse il Gran Premio della Pittura alla 32. Biennale di Venezia. Una speciale relazione, che è continuata e si è sviluppata nel tempo.
Non è un caso, perciò, che sia proprio la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia a ospitare la prima mostra museale postuma in onore del grande maestro americano. Del poderoso corpus di opere, in tutto 250 pezzi, che costituisce la serie dei
Gluts, se ne trovano qui circa quaranta.
I primi
Gluts risalgono al 1986. Dopo un viaggio in Texas, sconcertato dalla desolante visione della sua città natale, colpita da una gravissima recessione economica, Rauschenberg inizia a lavorare servendosi unicamente di rottami industriali.
Il titolo di queste opere – in italiano traducibile con parole come ‘eccesso’, ‘saturazione’ – aiuta a comprendere come questi assemblaggi nascano da una presa di posizione critica nei confronti d’una crisi economica causata dalla sfrenata speculazione; una riflessione che, data la situazione mondiale odierna, risulta più che mai attuale.
La serie, poco nota al grande pubblico, abituato a pensare al lavoro di Rauschenberg solo in riferimento ai
combine painting, si differenzia principalmente per l’esclusività dei materiali utilizzati. Nella celeberrima serie Rauschenberg assemblava, unitamente a colate di pittura, oggetti d’ogni tipo – anche animali imbalsamati, oltre a disegni, ritagli di giornale e fotografie -, che indistintamente andavano a formare la sostanza dell’opera d’arte. Nei
Gluts, invece, oltre a escludere completamente gli interventi pittorici, liberi e sensuosi, che mantenevano in sé l’eredità dell’Action Painting, Rauschenberg si è limitato a impiegare solamente rottami: lamiere monocrome, superfici metalliche colorate, segnali informativi, insegne stradali, rivetti, reti, sedie di ferro…
L’entusiasmo e l’attrazione nei confronti di questi materiali di recupero hanno portato il lavoro dell’americano, in quest’ultima fatica, ad avvicinarsi a quello di un altro grande artista,
John Chamberlain. Ma l’uso estetizzante che Chamberlain fa delle sue contorte carcasse di carrozzerie, alla ricerca di forme astratte, rimane lontano dalla poetica del texano.
Rauschenberg è interessato a mantenere l’integrità e la riconoscibilità della funzione originaria degli elementi di scarto, appartenenti a un mondo tecnologico e industriale a cui sa mescolare la simulazione del grande e libero disordine esistenziale. Anche se sfruttati nel loro potenziale estetico, attraverso accostamenti arditi, i suoi ferrivecchi vogliono pur sempre mantenere in sé le tracce del tempo. E la storia di chi li ha vissuti.