Dodici artisti, in una mostra a cura di Jota Castro, artista ed ex diplomatico, prendono atto di uno dei grandi disvalori che dominano la società: la paura. Dopo il glamour, il ritorno alla realtà, arrivato tra capo e collo nel settembre nero del crack, non ci ha reso più forti. Invece, ha messo a nudo le debolezze, i timori più infondati. Ha smascherato la vulnerabilità nascosta dietro gli occhiali da sole e i make-up aggressivi. Il senso di pericolo è andato a condizionare i rapporti umani e l’incontro con il diverso, acuendo il senso di vuoto verso il futuro.
Tania Bruguera, Fernando Bryce,
Martin Dammann,
Regina José Galindo,
Rainer Ganahl,
goldiechiari, Hans Haacke,
Alfredo Jaar,
Jesus Martinez Oliva,
Jesus Segura, Ann-Sofi Sidén e, naturalmente, Castro riservano all’arte il compito di registrare il ritorno a uno stato di terrore condiviso.
La performance
Autosabotaggio di
Tania Bruguera ne è un esempio. Non ci è dato di sapere se il colpo è in canna o meno, ma la roulette russa inscenata dall’artista cubana non risparmia brividi e va a toccare la sensibilità dello spettatore, compartecipe di un’assurda, cinica scommessa sulla vita.
Il senso di minaccia torna nel tratto fermo dei disegni di
Bryce (
Die Welt, 2008). La veridicità delle immagini, tradita da una bidimensionalità fumettistica, descrive senza esclusione di colpi le mappe dei conflitti e dell’economia. Con una riserva: il
Mondo di cui parla Bryce e che titola l’opera non è il nostro, bensì un affresco del periodo che va dall’ultimo ventennio dell’Ottocento al termine della Prima guerra mondiale.
L’esperienza del passato come cifra per misurare il presente muove inoltre l’opera di
Haacke. L’artista ripesca dall’album dei ricordi il ritratto di un rifugiato palestinese (
West Bank, 1994 – 27th Year of Occupation, 2007-09), un bambino di pochi anni, scattata nel ’94 e utilizzata in una mostra itinerante del 2007 nata a Tel Aviv, da un desiderio di pace comune a israeliani e palestinesi. La cronologia di cui è testimone l’opera (1994, 2007, 2009) rappresenta la durata del conflitto: il volto del bambino è la clessidra che segna il permanere delle ostilità.
La videoinstallazione di
Sidén (
Same Unknow, Strain 1,2,3, 2008) si concentra invece sulla vita umana, a prescindere dal contesto storico. Uomini e donne sono invitati a scivolare su una pertica da vigile del fuoco. Il movimento dall’alto verso il basso è frammentato su più schermi, accentuato. Il racconto, che nasce in pochi secondi, è implicito nei loro volti, negli sguardi, nel modo in cui affrontano la sfida o la via di fuga.
I monumentali Mikado di
Castro (
Shangai 2, 2009) non lasciano dubbi a proposito e pongono l’accento su una delle paure più forti che permeano la società contemporanea: l’incertezza. All’inizio del gioco, come cadranno i bastoncini non è dato saperlo. Ciò che è certo è che in gara qualsiasi passo falso può turbarne l’equilibrio. Qualunque movimento errato può decretare la sconfitta.