Fra i due spazi espositivi della Fondazione Bevilacqua La Masa, quello di Palazzetto Tito ha una qualità molto più “domestica” rispetto alla Galleria di Piazza San Marco. È proprio su tale domesticità che
Yoko Ono (Tokio, 1933; vive a New York) ha deciso di basarsi in occasione della sua personale,
Anton’s Memory.
Ogni stanza reca, infatti, piccole scritte a penna sul muro, minuscoli richiami sia all’architettura della casa che alle modalità di farne esperienza attraverso le opere in mostra. “
This room slowly evaporates every day” è scritto nella stanza che ospita
Touch Me III (2008-09), in cui lo spettatore è invitato a intingere le dita in una bacinella d’acqua e poi a toccare frammenti di una figura femminile in marmo, racchiusi in piccole scatole poste su un tavolo.
L’attenzione di Yoko Ono verso il corpo femminile ha da sempre contraddistinto la sua carriera: lo provano i due monitor affiancati che riproducono due documentazioni video della celebre performance
Cut Piece, in cui l’artista giapponese resta seduta a lasciarsi tagliare i vestiti dagli spettatori. Il primo filmato ritrae una versione del 1964, con una giovane Yoko Ono piena di “
rabbia e turbamento nel cuore”, secondo le sue stesse parole; l’altro mostra la ripetizione della medesima performance nel 2003, con un’artista settantenne piena di “
amore per il mondo”.
Due lavori in mostra invitano a scrivere i propri pensieri sui biglietti a disposizione: in
Love Letters (2009) l’argomento è il viaggio, e alcune valigie sono disposte per accogliere le annotazioni. In
My mommy is beautiful (2004) i biglietti, che stavolta hanno come argomento la figura della madre, vengono invece incollati su tele bianche appese al muro, a comporre un collage di esperienze e ricordi.
La strategia curatoriale favorisce il confronto temporale: ai lavori recenti vengono infatti giustapposte opere degli anni ‘60, e il cambio di temperatura è facile da percepire. Un esempio è il breve film del 1968
Freedom, installato su tre monitor, in cui una donna (la stessa Yoko Ono) tenta di strapparsi di dosso un reggiseno.
In tutto lo spazio espositivo è diffuso l’audio di un cinguettio a volume molto alto: si tratta della colonna sonora della performance che l’artista nipponica realizzerà il prossimo 11 settembre al Teatro La Fenice. Ci si accorge che si tratta di una registrazione solamente quando il suono cessa, per pochi secondi, per permettere al loop di ricominciare. L’effetto è sostenuto dal fatto che Ono ha deciso di lasciare aperte alcune finestre di Palazzetto Tito (
Open Windows, 2009), affiggendo accanto a ogni “veduta” un’etichetta scritta a mano.
L’intervento, pur sottile, risulta essere uno dei più puntuali della rassegna: le finestre si aprono su disordinate corti interne tipicamente veneziane, oltre a dischiudere una splendida vista sul canale antistante, stabilendo un dialogo molto efficace fra lo spazio della mostra e la città circostante.
Se non sapessimo che si tratta di Yoko Ono, un certo tipo di retorica sul panteismo e sull’amore universale potrebbe sembrare, oggi, molto meno efficace.