Categorie: biennale 2009

biennale 2009_interviste | Bruce la città

di - 21 Giugno 2009
Anche se le scelte per il Padiglione degli Stati Uniti alla Biennale di Venezia sono tutte precedenti lo scorso novembre, è inevitabile cominciare questa intervista con il mutato clima americano. Qual è il significato di questo Padiglione nell’“era Obama”?
Penso che quest’aspetto riguarderà più le persone che vedranno il Padiglione. Noi abbiamo cominciato a lavorare molto prima, tra l’altro con tre diversi funzionari del Dipartimento di Stato che si sono alternati nel tempo. I nostri rapporti con il Dipartimento, perciò, non sono stati influenzati dai cambiamenti politici. Per noi si è trattato dunque di riflettere su che cosa vuol dire rappresentare gli Stati Uniti, in un contesto come quello dei padiglioni nazionali che è un’eredità del colonialismo: gli Stati Uniti non hanno storicamente molto a che vedere con questa coincidenza tra cultura, identità e territorio. La popolazione è in costante cambiamento, e anche la cultura si definisce in base alla possibilità di modificarsi. Questo Padiglione perciò cerca di capirsi attraverso la città di Venezia. Non so quanto Nauman stesso pensi al fatto di rappresentare gli Usa; è contento di realizzare una mostra con la città e di lavorare con gli studenti, questa per lui è la cosa importante.

Un artista come Bruce Nauman rappresenta un’occasione per una riflessione articolata e complessa su questo momento storico, a scapito magari della spettacolarità esibita a cui ci ha abituato molta arte contemporanea degli ultimi anni. È così?
Per me è stato così. Nauman ha sempre rifuggito la spettacolarità: le opere che sono esposte hanno un grande impatto, ma non sono spettacolari, non si arrendono cioè al visibile. Vanno sperimentate, vanno capite con il corpo piuttosto che con l’occhio, perché resistono alla traduzione in un linguaggio unicamente d’immagine.

Raccontaci qualcosa sulle opere esposte in Topological Gardens, e sulle connessioni e interazioni (‘threads’) tra di loro…

Le tre sedi della mostra (Padiglione, complesso dei Tolentini dell’Università Iuav e Università Ca’ Foscari) sono abbastanza indipendenti tra loro, ma al tempo stesso sono collegate da un unico pensiero espositivo. Alcuni elementi si ripetono all’interno dei sistemi autonomi. Non c’è ovviamente alcun obbligo per gli spettatori di percorrere i tre spazi, ma coloro che vorranno farlo avranno la possibilità di una visione complessiva. Le opere esposte comprendono quelle più recenti, del 2009, ma anche quelle del primo periodo (dalla metà degli anni ‘60). La logica della selezione ha voluto privilegiare i lavori degli ultimi vent’anni, successivi cioè alla grande retrospettiva del Walker Art Center di Minneapolis, che quindi sono stati visti finora solo parzialmente. Inoltre, molte delle trenta opere esposte non sono mai state viste in Europa: si tratta dunque di una mostra pensata specificamente per un pubblico europeo.

In che senso affermi che, per la visione e l’interpretazione di questa mostra, “la cronologia non è adatta”?

All’inizio avevo cominciato a riflettere sul Catalogo Ragionato di Bruce Nauman. Uno dei primi neon dell’artista, The True Artist Helps the World by Revealing Mystic Truths (1967), era installato su una grande finestra nel suo studio di San Francisco. Ma la scritta si leggeva solo quando lo spettatore si trovava fuori, per strada, in uno spazio dunque che non aveva una valenza artistica e in cui l’oggetto poteva non essere percepito come opera d’arte; al contrario, nello spazio “dell’arte”, la frase risultava illeggibile. Proprio questo conflitto tra leggibilità e illeggibilità, tra ciò che è arte e ciò che non lo è, è stato il motore di questa mostra. Questo spazio di indecidibilità è centrale nel lavoro di Bruce Nauman, ed è stato il punto di partenza per la selezione delle opere. Tante mostre di Nauman sono state concepite secondo la logica dei capitoli, rappresentati dai mezzi tecnici utilizzati. Ma Bruce Nauman è un artista difficile: vedi l’opera, senti il suo impatto, e magari molto tempo dopo ti avvicini davvero al suo senso possibile. Abbiamo tentato perciò di stabilire dei percorsi: ad esempio, tra le fotografie dello studio e Mapping the Studio non ci sono secondo me tante differenze, eppure si tratta di un’opera degli anni ‘60 e di una del 2001. Guardando da vicino ti accorgi che ci sono dei percorsi all’interno dell’opera, come frasi che collegano i diversi lavori, anche a distanza di tempo. Si tratta di una struttura a spirale, che riprende alcuni pensieri, ritornando su se stessa ma cambiando allo stesso tempo. Non è una struttura cronologica, e richiede perciò un’altra organizzazione del tempo e dello spazio. È una nozione di temporalità non-lineare.

Topological Gardens non si limita allo spazio del Padiglione, ma si estende alle Università Iuav e Ca’ Foscari. In questo senso, hai parlato di “porosità”. Ci spieghi le ragioni di questa novità?
Bruce Nauman ha realizzato nel 1994 una serie d’incisioni intitolata Fingers & Holes. In proposito ha detto: “All’inizio guardavo la posizione delle dita, poi ho capito che i buchi, gli spazi tra le dita, erano altrettanto importanti”. Allo stesso modo, gli spazi tra le tre sedi di questa mostra sono tanto importanti quanto le sedi stesse. Abbiamo lavorato con l’intero tessuto della città. L’intento è quello di portare lo spettatore a capire e ripensare anche lo spazio tra una sede e l’altra. Venezia è molto adatta a questo processo, essendo una città da vivere oltre che un importante centro turistico. Una città che nasconde moltissimi segreti.

L’allargamento della mostra retrospettiva non è solo in senso spaziale, ma ha previsto anche il coinvolgimento attivo di professori e studenti delle due istituzioni nella realizzazione delle opere. Ci puoi dire qualcosa su questo importante aspetto?
Gli studenti sono stati coinvolti nella produzione di due opere: la nuova installazione sonora e il rifacimento di un’opera del 1970. Anche i docenti (come Massimo Magrì, che ha effettuato le riprese) hanno avuto parte attiva in questo lavoro. Inoltre, lo Iuav ha avviato il processo per il conferimento a Bruce Nauman della laurea honoris causa. Dunque, le istituzioni universitarie sono state coinvolte su più livelli.

Alla luce anche delle riflessioni emerse dal Festival dell’arte contemporanea, quale può essere il rapporto tra l’istituzione della Biennale (soprattutto quella veneziana, “la madre di tutte le biennali”) e la crisi globale?
La crisi per noi ha significato che il nostro processo di fund raising si è rallentato. Per fortuna, quando la crisi è esplosa avevamo già raccolto l’80% dei fondi; abbiamo però dovuto lavorare il doppio per riuscire a raggiungere il preventivo. A livello internazionale, indubbiamente, la situazione è molto cambiata. Io sono molto felice di questo lavoro con Nauman, dal momento che è frutto di una stretta collaborazione con alcune istituzioni: senza l’università, infatti, questa mostra non sarebbe stata possibile. L’appoggio logistico e la disponibilità degli spazi, soprattutto in un contesto come quello di Venezia, non ha prezzo. Bruce Nauman, d’altra parte, non è stato mai vicino alle logiche del mercato: i suoi prezzi sono ancora abbastanza ragionevoli, e ha una sola assistente da ventidue anni. È un tipo di artista che non è stato vincolato agli aspetti negativi degli ultimi anni. E non si tratta neanche di un ritorno all’ordine, semmai di un ritorno ai valori fondamentali dell’arte: la sperimentazione, l’eticità.

Per finire: qual è oggi, e quale sarà nel prossimo futuro secondo te – anche alla luce della tua esperienza sia come storico delle esposizioni, sia come curatore e co-curatore di importanti mostre periodiche (Documenta 11 nel 2002, parte della 50. Biennale di Venezia nel 2003) – la funzione della Biennale in un contesto economico e sociale che molto probabilmente sarà profondamente mutato?
Sarebbe bellissimo se la Biennale continuasse a puntare sull’educazione. Il trasferimento dell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (Asac) all’interno del Padiglione Italia mi sembra una cosa, in questo senso, molto importante. Il rapporto sempre più stretto con l’università e con gli studenti, che vivono a Venezia tutto l’anno, potrebbe essere un potenziale enorme: io sento che Venezia, oltre a essere un centro turistico di prim’ordine, possiede istituzioni museali prestigiose e costituisce un importante centro di studi. Ciò che vorrei rimanesse e venisse ripreso di questo Padiglione americano è proprio il rapporto con le varie istituzioni veneziane, e il coordinamento tra queste varie realtà: questo processo permetterebbe davvero lo sviluppo di moltissime possibilità per il futuro.

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a cura di christian caliandro


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  • Ok bruce naumann, ma nel conferimento della laura ad honorem da parte dello IUAV, che prende realmente la laurea??? Secondo me lo IUAV. Che in italia, insieme a poci, controlla il sistema dell'arte mantenendo abilmente un equilibrio tra un atteggiamento da gomorra e la qualità delle scelte. Lo IUAV è collegato con festival di faenza, viafarini/care of, fond. bevilacqua la masa, fond. spinola banna, ecc. ecc. Inoltre è tra i referenti per l'estero che si presentano al cospetto degli stranieri che si affacciano in italia. Tutto questo per costringere lo IUAV a qualcosa di imprescindibile in italia per l'arte, quando non è così e non deve essere così.

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