Fu un’ascesa rapida?
La mostra istituzionale ebbe successo. Ma mentre Chia cercava di inserirsi nel sistema dell’arte e delle gallerie, imperavano Conceptual Art, Body Art, Minimal Art. Lui era giovane, aveva delle idee buone, e gli capitò l’incontro fatale con Enzo Cucchi.
Con Cucchi Chia scrisse il libro Tre o quattro artisti secchi, che lei pubblicò nel 1978. Cosa avevano di speciale questi “secchi”?
Si trovarono insieme a pensare un rivolgimento dell’arte. Ciò significava rimettere in gioco la tradizione italiana con ironia, intelligenza e sapienza. Mi proposero questo libro fatto a sei mani con Achille Bonito Oliva come critico e lo pubblicai.
E fu la svolta…
Sì. Tutti mi presero per pazzo, ma il libro fece il giro del mondo. Mi chiamarono i musei, da nord a sud, e da lì partì la grande avventura della Transavanguardia.
Una scelta dettata dal cuore o dal mercato?
L’arte di punta in quegli anni era di alto livello culturale, ma percepimmo, io da mercante, loro come artisti, che aveva dato quel che poteva dare. Con loro colsi l’occasione di staccarmi da un’arte impossibile da vendere. C’era una crisi della Madonna…
Com’era la crisi di allora?
L’arte era solo chiacchiere, il mercato era inesistente. I capolavori che oggi valgono una fortuna si cambiavano per due mele, tre pere e un assegno postdatato a un anno. Bisognava ripartire. L’arte è sempre un colpo avanti, uno in centro e uno indietro. Poi tutto si rimescola per proseguire. La vera arte, infatti, è imprendibile.
Fu una lotta, c’era molta invidia perché era la prima volta, dopo il Futurismo, che in Italia nasceva un movimento internazionale. In realtà, musei di tutto il mondo comprarono i lavori per una lira. Però almeno erano soldi veri, non due mele e tre pere.
Poi Chia andò a New York e i prezzi salirono…
Tutti vennero chiamati in America, non solo Chia. Nella mia galleria, allora minima, vennero personaggi come Ileana Sonnabend o Rudolf Zwirner. Poi gli artisti andarono in Usa, Francesco Clemente s’inserì nel sistema museale e ideologico americano, Chia rimase indipendente. Ebbe l’intelligenza di ironizzare su un sistema dell’arte fatto di cattedrali e curatrici vestite di nero come preti asessuati. Sperone, da grande gallerista, lo notò e fiutò il business.
A chi s’ispirava il suo lavoro?
A molti modelli: Chia è un artista colto. Chagall e il Futurismo Russo influirono più di tutti.
A proposito di Futurismo, questa Biennale cade nel suo centenario. E scadono anche i venticinque dalla prima Biennale di Chia nel 1984. La seconda coincise con una grande mostra da lei. Gliene dedicherà un’altra?
Non m’interessava molto della Biennale. L’arte la fai per l’arte. Se Chia avesse un’idea e buoni quadri, la farei eccome una nuova mostra.
Quindi la pittura è ancora “d’avanguardia”?
Chia è un artista che può ancora e sempre esser “d’avanguardia”, dipende dagli stimoli che ha e se ha voglia di lavorare bene. La pittura è sempre attuale, da quattromila anni. Una certa cultura radical chic non ha mai fatto a meno di pittori come Bacon, Lucian Freud, Mckenzie o Richter.
A sessantasette anni di Biennali ne ho viste, ma a lasciare un segno sono state poche. Nel 1948 è emerso il gruppo CoBra, nel 1964 è uscita fuori la Pop Art, nel 1980 la Transavanguardia. Anche quella di Szeemann ha fatto storia. Altre neanche te le ricordi.
Questa come la vede?
Ci sono dei nomi che mi meravigliano. Sarà poi il popolo dell’arte a dare il suo giudizio insondabile. Io auguro ai curatori una Biennale indelebile come quelle tre germinali, però se fossi un bookmaker non ci punterei. Ma le scommesse si vincono e si perdono.
Un Padiglione Italia targato Mazzoli, su chi punterebbe?
Magari dessero in mano la Biennale ai mercanti invece che a critici, assessori e politici. In ogni caso una Biennale targata Mazzoli sarebbe una rinuncia. Con quello che c’è a disposizione avrei detto: “No grazie!”.
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a cura di beatrice benedetti
[exibart]
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