Categorie: biennale 2009

biennale 2009_interviste | Making Wor(l)ds

di - 3 Giugno 2009
Perché hai scelto questo tema, Fare mondi, per la tua Biennale? Non sembra solo un tema estetico, ma un’idea che investe anche la sfera politica e sociale…
Il titolo proviene da un libro di Nelson Goodman, Ways of Worldmaking [tradotto in italiano col titolo Vedere e costruire il mondo, N.d.T.], ma ovviamente non si tratta dell’illustrazione di una filosofia. Un mondo tende a essere abitato da più di un individuo, quindi in questo caso “fare” ruota intorno al costruire qualcosa di comune, che può essere condiviso. Forse i nuovi mondi emergono dove i mondi esistenti s’incontrano, ed è per questo che sono interessato alle innumerevoli traduzioni del titolo. Veramente non so come Stvaranje svjetova, Facere de lumi, Pasauļu radīšana, Karoutsel Ashkharhner, יוצרים עולמות o Dünyalar Yaratmak suonino alle persone che parlano queste lingue, ma sottolineare tutte queste valenze di “fare” e di “mondi” è uno stimolo ad allontanarsi da una ricezione della mostra intesa come presentazione a carattere museale di oggetti preconfezionati e autosufficienti. Può invece essere un workshop, una cucina, un vivace bazar, un laboratorio…

Viviamo in un mondo postmoderno: liquido, globalizzato, iper-capitalista e, ora, coinvolto in una grande crisi economica, che potrebbe anche essere una crisi di certi valori. Ti aspettavi questo cambiamento? Come influenza il tuo lavoro?
Penso che tutti siano in cerca di nuovi inizi. Potresti legittimamente chiedere: come può essere condotta oggi la ricerca di un nuovo principio? Forse però non si deve cercare così a fondo per trovare una risposta. Voglio dire che, proprio adesso, qualcosa sta crollando, e non solo nel mondo dell’arte. Può comunque essere allettante dire cose semplicistiche sull’attuale crisi finanziaria; si può supporre con certezza che siamo a una svolta, culturalmente e creativamente parlando. Quindi la mia speranza è che questa Biennale non presenti dei meri frammenti di qualcosa che è crollato, ma fornisca anche degli spunti di qualcosa di là da venire, se non come una visione nuova e totalmente coerente, almeno come una pluralità emergente di possibilità.

Sei critico nei confronti del nuovo “sistema dell’arte”, troppo orientato al business, e hai detto che non potrà continuare così. Cosa ci dobbiamo aspettare dal futuro?

All’attuale industria visuale, sempre più feticistica, e alla sua richiesta di merci, è quanto mai fondamentale rispondere insistendo sul fatto che l’esperienza dell’arte è qualcosa che non può essere pienamente afferrata in termini di possesso. L’arte concerne altre cose: la passione, le visioni. Perché un’opera d’arte è assai più che un oggetto o una merce. Sono sorpreso come chiunque altro per come le cose stanno cambiando, intendo così rapidamente. I cambiamenti non sono solo buoni; alcuni hanno un’idea ottimistica, per cui dal mondo dell’arte scompariranno solo le cose supercommerciali, mentre quelle buone godranno di nuova visibilità. Io invece temo che tutto e tutti siano nei guai.

Oggi il “sistema dell’arte” presenta ottanta biennali in tutto il mondo. In questa situazione, cosa significa essere il direttore della Biennale di Venezia?
In fondo, gli artisti sono molto motivati solo quando si tratta di nuovi progetti. Grazie a Dio, la Biennale di Venezia pare essere uno di questi. Non è così semplice, perché la grande visibilità rende tutti un po’ nervosi. Ma, d’altro canto, nessun artista ha rifiutato il nostro invito, e tutti stanno facendo del loro meglio.

Che tipo di strategia curatoriale hai adottato per la Biennale? Come hai lavorato con gli artisti invitati in Biennale e coi tuoi corrispondenti, ossia Savita Apte, Tom Eccles, Hu Fang e Maria Finders?

I miei corrispondenti semplicemente conoscono bene le cose nelle quali ho bisogno d’aiuto. Sono stato in Asia solo poche settimane, quindi sarebbe stato assurdo pensare di avere una qualche conoscenza dell’arte di quel continente. Savita Apte è uno dei principali esperti d’arte indiana e Hu Fang è un autentico esperto della situazione contemporanea cinese. È stato di grande aiuto avere persone così intorno a sé, per testare idee e avere un dialogo continuo. Alla fine si fa una mostra, ma ciò non significa che io sia totalmente solo nella fase di ricerca.

Hai detto che il curatore è come un direttore d’orchestra, che “deve guidare il lavoro collettivo di tutti gli strumenti affinché ne risulti una sinfonia”. Però, se la funzione dell’artista è quella di “fare mondi”, allora il lavoro del curatore consiste nel “fare un mondo di mondi”. Il curatore può quindi essere come un Dio, uno “(show)maker” che ha una visione panottica e infonde il senso ultimo ai mondi degli artisti, “usandoli” in un universo regolato da una grande Weltanschauung?
No, il ruolo del curatore al quale sono interessato è piuttosto quello di essere un complice.

Sei curatore e filosofo. Qual è, secondo te, la relazione fra arte e filosofia? E fra curatela e pensiero?

Il denso libretto di Goodman, Vedere e costruire il mondo, è una fonte d’ispirazione, ma la mostra non tenta d’illustrare una filosofia dell’arte, che sia quella di Goodman, di Deleuze, di Heidegger o di chiunque altro. Sarebbe noioso. Ciò che il titolo tenta di enfatizzare è che l’arte può forse aiutarci nella ricerca di nuovi inizi. Può una mostra essere la manifestazione di una filosofia? Può essere un mezzo produttivo per il pensiero e non solo una sorta di didascalica illustrazione d’idee già esistenti? Non c’è dubbio che ci sono stati lavori di letteratura, arte e musica con queste magnificenti ambizioni, e ci sono stati filosofi che hanno tentato di esprimere la grandiosa filosofia del romanzo (Lukács), della musica moderna (Adorno) o del cinema (Deleuze). Si potrebbe dire che Jean-François Lyotard, il quale ha curato Les Immatériaux nel 1985, è il filosofo dell’esposizione? In caso affermativo, cos’era in gioco? Come si può facilmente immaginare, in gioco non c’era nient’altro che la fine della modernità e la possibile emergenza di qualcosa d’interamente nuovo, ancora discernibile solo come punto interrogativo, come qualcosa di scomparso, come una certa assenza: “L’intera mostra potrebbe esser pensata come un segno riferito a un significato scomparso”. Questo qualcosa di scomparso e che potrebbe emergere ha a che fare con “la pena che circonda la fine dell’era moderna, così come la sensazione di giubilo connessa all’apparizione di qualcosa di nuovo”. Alla fine il risultato non potrebbe essere più grandioso: cosa sono queste cose materiali e immateriali che ci circondano oggi? E soprattutto: cosa siamo noi?

Chi sono i tuoi modelli intellettuali nella tua vita professionale e quali sono i temi che ti interessano maggiormente?

La filosofia, a quanto pare, va regolarmente in esilio. Necessita di un altro campo discorsivo per sviluppare i propri concetti e renderli produttivi. Lyotard ne parla in termini di “diaspora” del pensiero, che vagabonda in altri ambiti. Negli anni ’60, questa sfera esterna era indubbiamente e in primo luogo la società stessa, e molta filosofia si attestò nelle immediate prossimità della sociologia. Negli anni ’70, nuove idee sul testo e la “testualità” divennero così di moda che la filosofia parve fondersi con un nuovo tipo di critica letteraria speculativa. Negli anni ’80, le idee sui simulacri dei media indirizzarono il dialogo con l’arte e con il mondo delle immagini verso l’ultimo vivace punto di partenza per l’esplorazione filosofica. Cos’avvenne in seguito? In quali nuovi ambiti la filosofia ha girovagato da allora? Tecnologia, città, architettura, forme di globalizzazioni. Sì, in tutte queste cose, e forse nell’esposizione come medium per il pensiero e la sperimentazione. Questa “svolta curatoriale” del pensiero radicale è materializzata per la prima volta negli Immatériaux di Lyotard, che ha anticipato due decadi di frenetica produzione di mostre in tutto il globo. Era un ampio esperimento sulla realtà virtuale e sull’esposizione come opera d’arte. Lyotard ne era ben conscio, ed era una provocazione. Voleva che la mostra stessa fosse un’opera d’arte. Ma com’era la mostra? Come nota Philippe Parreno quando ha tentato di descriverla, oggi ogni sua descrizione suona un po’ sognante e disorientante. Oppure come la storia del tizio che vuole noleggiare un video e dice: “Vorrei noleggiare un film ma non ricordo né il titolo né il regista. Ma so che è un film in bianco e nero, ma a colori, soprattutto alla fine. C’è Bruce Willis con Superman…”.

Nel 2007 hai scritto Teaching Art: Städelschule Frankfurt am Main, un libro sulla tua esperienza come rettore della Städelschule a Francoforte e direttore del Portikus dal 2001. Come ha influenzato il tuo lavoro quest’esperienza e cosa significa per te questa “bildung” accademica e formale e occidentale per milioni di persone che studiano in centinaia di accademie, dalla Cina al Brasile? Globalizzazione può significare omologazione?

Non c’è dubbio che, in città grandi e internazionali, le locali accademie d’arte hanno caratteristiche che non si possono trovare altrove, e probabilmente è abbastanza naturale. Chi, se non i giovani artisti che studiano in una città e i professori che insegnano a loro anno dopo anno, dovrebbe definire la situazione artistica locale? Dunque, cos’era tipico alla Städelschule e quali caratteristiche originali valeva la pena di coltivare? Alcune caratteristiche spiccavano immediatamente: nessun’altra scuola d’arte, a quanto ne so, ha una cucina vicino all’ufficio del direttore amministrativo e prende così seriamente il cucinare. Mi pareva peculiare e interessante abbastanza da essere coltivata. E nessun’altra scuola d’arte ha un programma di mostre ambizioso come quello del Portikus. Era un programma padagogico, una filosofia dell’educazione? In realtà, era ed è tuttora impossibile ridurre l’insegnamento alla Städelschule a una dottrina, poiché quella scuola è sempre stata centrata sugli input provenienti da un ristretto numero di insegnanti carismatici, ognuno con diversi, talora opposti, punti di vista: da Thomas Bayrle, Peter Cook, Ayse Erkmen e Hermann Nitsch nel recente passato, a Ben van Berkel, Isabelle Graw, Michael Krebber, Christa Näher, Tobias Rehberger, Willem de Rooij, Martha Rosler, Simon Starling e Wolfgang Tillmans oggi. Insieme ai loro studenti, questi personaggi-chiave definiscono cos’è la scuola. Hanno piena libertà, e ritengo che questa sia la cosa più importante. Ciò che offrono non è solo la loro esperienza e competenza, ma in ultima analisi qualcosa di ancor più rilevante: loro stessi come esempi di cosa significa essere un artista oggi. Questa è probabilmente la caratteristica più essenziale della Städelschule: l’artista individuale è più importante d’ogni programma educativo o dottrina.

In Italia ci sono stati recenti casi d’intolleranza e censura. Da Cattelan a Milano alla mostra di Sgarbi, sempre a Milano, a quella di Adel Abdessemed a Torino. Dove inizia la libertà dell’arte e degli artisti, e dove deve finire la libertà della politica e della società quando applicano la censura?

Gli artisti dovrebbero essere liberi quando creano i loro lavori, ma sono anche semplicemente esseri umani, che dovrebbero mostrare rispetto verso gli altri esseri umani, come deve fare chiunque. Non ci sono misteri. Nella maggior parte dei casi è una questione di decenza.

L’anno scorso a Torino in occasione della presentazione della tua Triennale, hai detto: “La Triennale di Torino è una mostra di artisti italiani emergenti e la Biennale di Venezia è una mostra universale. Imparerò molto dall’arte italiana”. Cos’hai imparato?
Sto conoscendo parecchi individui interessanti e ho confermato quel che già sapevo: non credo nei movimenti e nelle tendenze, mi stancano. Mi interessano solo le cose − e le persone − individuali.

La Biennale di Francesco Bonami ha eletto lo spettatore a dittatore. Probabilmente è una regola ermeneutica: se l’artista fa un mondo, lo spettatore è il dittatore di quel mondo. L’arte è un dialogo oppure qualcosa di violento? È un “gioco d’interpretazioni”, come voleva Gadamer, o una guerra d’interpretazioni?
Un’opera d’arte è uno specchio. Se una scimmia la guarda, non vi vedrà riflesso un santo.

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a cura di nicola davide angerame
traduzione di marco enrico giacomelli


*articolo pubblicato su Exibart.speciale Biennale. Te l’eri perso? Abbonati!<

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  • in italia birnbaum non ha neanche cercato ma ha scelto tra la lista di artisti proposti dai capi del sistema: bonacossa,bonami,gioni,di pietrantonio, paolo zani, de carlo, franco noero, marconi (trevisani è stato scartato e presa rosa barba).

  • Effettivamente e per fortuna...ci sono mondi ancora da scoprire!!!

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