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02
luglio 2009
biennale 2009_opinioni A mo(n)do mio
biennale 2009
Una piacevolissima Biennale. Che suggella la chiusura di un decennio, gli anni ’90, privi di grandi scossoni. Peccato che, nel frattempo, siano trascorsi altri diec’anni. Che vi sia stato l’attacco alle Due Torri e una crisi globale in corso. Una carinissima Biennale anacronistica...
Quella orchestrata da Daniel Birnbaum è una Biennale piuttosto atipica. O almeno è così che chi scrive l’ha recepita: a una prima visione, nella quasi-solitudine del mercoledì pre-pre-view, è parsa piacevole, in specie nella sezione all’Arsenale. A una seconda visione, quando il numero dei giornalisti aumentava, si è rivelata carina, in particolare per la propaggine en plein air, pur malamente segnalata, al Giardino delle Vergini. A una terza visione, infine, quando le giornate del vernissage andavano spegnendosi, è stata la parte allestita al Palazzo delle Esposizioni a palesarsi migliore di quanto fosse sembrato di primo acchito, tenuto conto delle difficoltà allestitive che presentano quegli spazi antiquati e labirintici.
E tuttavia, una frattura netta è intercorsa fra la seconda e la terza visita. Originata da un fatto assolutamente occasionale, ha messo a nudo quel che riteniamo sia la natura precipua di questa Biennale: la sua profonda capziosità. Detta popolarmente: una trappola ben congegnata.
Si potrà discutere più o meno a lungo del livello di coscienza al quale tale insidiosità sia giunta nella mente del curatore (anche se, quando nel testo in catalogo – curiosamente bilingue, nel senso che una pagina dell’edizione italiana è stampata soltanto in inglese – si legge dell’opera d’arte come “progetto di fuga”, qualche idea in merito viene prepotentemente a galla).
In ogni caso, il risultato non cambia. Quale risultato? La tesi è semplice e brutale: quella di Birnbaum è una Biennale che – al di là delle date dei lavori esposti – poteva essere allestita nel 2007, nel 2005, finanche nel 2003 o addirittura nel 2001 (a giugno s’intende, quindi prima dell’attacco alle Twin Towers).
Per esprimersi ancor più chiaramente: si tratta d’una mostra totalmente avulsa dal contesto globale; contesto inteso dal punto di vista sociale, economico, politico. In questo senso è un’autentica trappola: circuisce la preda – il visitatore – con educati e ammalianti luccichii, fin quando non si torna a casa. Alla realtà, che è dura per definizione.
Ora, le avanguardie erano latrici di un progetto che assegnava all’arte una funzione performativamente anticipatrice: l’arte come strumento che fa tendenza, si direbbe oggi. Diamo pure per ammesso e concesso che tale compito messianico sia ormai destituito di valore. Ma, nel caso lagunare, non v’è nemmeno una banale registrazione dei fatti. Va da sé, non è necessario che siano pedissequamente riproposti e interpretati attraverso una qualsivoglia mimesi; ma è pur vero che da essi non si può prescindere. La psichiatria ha definizioni piuttosto precise per nominare atteggiamenti siffatti, che si possono per semplicità raccogliere sotto il (comprensivo) cappello della rimozione.
Certo, a Birnbaum e ai suoi artisti non è mancata la coerenza, sia al tema – a dire il vero tanto vasto che riuscire a esser incoerenti sarebbe stato un punto d’onore -, sia a un pensiero espresso piuttosto limpidamente nel testo di cui sopra (benché, in altre occasioni, Birnbaum abbia detto e scritto tutt’altro, ma tant’è).
Si badi bene: non stiamo auspicando un’arte politica intesa come didascalicità, e nemmeno come beuysiano impegno sciamanico. Anzi, quest’ultimo approccio, assai romantico, è proprio quello che, in fondo, propina Birnbaum, con l’artista che nella sua individualità, quantunque plurale, fa a mo(n)do proprio. Che poi quel modo/mondo lo proponga agli altri, pare decisamente una questione secondaria. La mancanza principale di questa mostra, dunque, sta nella quasi totale assenza di relazionalità, nella latitanza d’ogni politica etimologicamente intesa. Niente polis, insomma, e abbondante solipsismo.
Ciò significa che non vi sono esposti lavori degni di nota? Tutt’altro: molti sono coloro che meritano attenzione, e fra questi gli italiani non sfigurano affatto. Tutt’insieme – in diversi casi, riteniamo, loro malgrado – concorrono però alla suddetta carineria. Poiché, certo, all’artista spetta di fare mondi, ma quelli che finiscono a Venezia li sceglie il magnifico rettore svedese. E, come in ogni scuola che si rispetti, non si alzano mai troppo i toni, e ci si guarda bene dall’escludere le varie e variegate “quote rosa” d’ogni genere (quindi non mancano i lavori didascalicamente politici, terzo-alter-mondisti, vetero-femministi ecc.).
Ma proprio questa è (stata) la morte della politica: un borghesissimo politically correct, che non chiede nemmeno lo sforzo di essere “sussunto”, come avrebbe detto Marx. Nasce già sterilizzato, innocuo… carino. Se la cronologia non ci smentisse – le date, ancora – verrebbe da pensare che questo è un ulteriore, infausto esito di un certo Sessantotto, quello che in tempi non sospetti faceva dire a Eugène Ionesco: “Diventerete tutti notai”.
Così, dopo l’accoppiata María de Corral e Rosa Martínez e la successiva prova di Robert Storr, vien sempre più da rimpiangere la Biennale di Bonami. Che, come certo vino, migliora col passare degli anni. E conferma che il lavoro del critico e quello del curatore sono assai differenti: tranne rari casi, se uno è ben fatto, l’altro è mediocre. E viceversa.
E tuttavia, una frattura netta è intercorsa fra la seconda e la terza visita. Originata da un fatto assolutamente occasionale, ha messo a nudo quel che riteniamo sia la natura precipua di questa Biennale: la sua profonda capziosità. Detta popolarmente: una trappola ben congegnata.
Si potrà discutere più o meno a lungo del livello di coscienza al quale tale insidiosità sia giunta nella mente del curatore (anche se, quando nel testo in catalogo – curiosamente bilingue, nel senso che una pagina dell’edizione italiana è stampata soltanto in inglese – si legge dell’opera d’arte come “progetto di fuga”, qualche idea in merito viene prepotentemente a galla).
In ogni caso, il risultato non cambia. Quale risultato? La tesi è semplice e brutale: quella di Birnbaum è una Biennale che – al di là delle date dei lavori esposti – poteva essere allestita nel 2007, nel 2005, finanche nel 2003 o addirittura nel 2001 (a giugno s’intende, quindi prima dell’attacco alle Twin Towers).
Per esprimersi ancor più chiaramente: si tratta d’una mostra totalmente avulsa dal contesto globale; contesto inteso dal punto di vista sociale, economico, politico. In questo senso è un’autentica trappola: circuisce la preda – il visitatore – con educati e ammalianti luccichii, fin quando non si torna a casa. Alla realtà, che è dura per definizione.
Ora, le avanguardie erano latrici di un progetto che assegnava all’arte una funzione performativamente anticipatrice: l’arte come strumento che fa tendenza, si direbbe oggi. Diamo pure per ammesso e concesso che tale compito messianico sia ormai destituito di valore. Ma, nel caso lagunare, non v’è nemmeno una banale registrazione dei fatti. Va da sé, non è necessario che siano pedissequamente riproposti e interpretati attraverso una qualsivoglia mimesi; ma è pur vero che da essi non si può prescindere. La psichiatria ha definizioni piuttosto precise per nominare atteggiamenti siffatti, che si possono per semplicità raccogliere sotto il (comprensivo) cappello della rimozione.
Certo, a Birnbaum e ai suoi artisti non è mancata la coerenza, sia al tema – a dire il vero tanto vasto che riuscire a esser incoerenti sarebbe stato un punto d’onore -, sia a un pensiero espresso piuttosto limpidamente nel testo di cui sopra (benché, in altre occasioni, Birnbaum abbia detto e scritto tutt’altro, ma tant’è).
Si badi bene: non stiamo auspicando un’arte politica intesa come didascalicità, e nemmeno come beuysiano impegno sciamanico. Anzi, quest’ultimo approccio, assai romantico, è proprio quello che, in fondo, propina Birnbaum, con l’artista che nella sua individualità, quantunque plurale, fa a mo(n)do proprio. Che poi quel modo/mondo lo proponga agli altri, pare decisamente una questione secondaria. La mancanza principale di questa mostra, dunque, sta nella quasi totale assenza di relazionalità, nella latitanza d’ogni politica etimologicamente intesa. Niente polis, insomma, e abbondante solipsismo.
Ciò significa che non vi sono esposti lavori degni di nota? Tutt’altro: molti sono coloro che meritano attenzione, e fra questi gli italiani non sfigurano affatto. Tutt’insieme – in diversi casi, riteniamo, loro malgrado – concorrono però alla suddetta carineria. Poiché, certo, all’artista spetta di fare mondi, ma quelli che finiscono a Venezia li sceglie il magnifico rettore svedese. E, come in ogni scuola che si rispetti, non si alzano mai troppo i toni, e ci si guarda bene dall’escludere le varie e variegate “quote rosa” d’ogni genere (quindi non mancano i lavori didascalicamente politici, terzo-alter-mondisti, vetero-femministi ecc.).
Ma proprio questa è (stata) la morte della politica: un borghesissimo politically correct, che non chiede nemmeno lo sforzo di essere “sussunto”, come avrebbe detto Marx. Nasce già sterilizzato, innocuo… carino. Se la cronologia non ci smentisse – le date, ancora – verrebbe da pensare che questo è un ulteriore, infausto esito di un certo Sessantotto, quello che in tempi non sospetti faceva dire a Eugène Ionesco: “Diventerete tutti notai”.
Così, dopo l’accoppiata María de Corral e Rosa Martínez e la successiva prova di Robert Storr, vien sempre più da rimpiangere la Biennale di Bonami. Che, come certo vino, migliora col passare degli anni. E conferma che il lavoro del critico e quello del curatore sono assai differenti: tranne rari casi, se uno è ben fatto, l’altro è mediocre. E viceversa.
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Mondi da mettere al mondo
marco enrico giacomelli
[exibart
Si tratta di una biennale che rispecchia la crisi dei contenuti (critica dell’arte) e dei contenitori (economica dell’arte). Tutto normale, tutto prevedibile. Tutto piacevole come l’acqua fresca. Il problema è la pretenziosità. Se avesse distribuito veramente solo acqua fresca al pubblico sarebbe stato grande.
sono d’accordo con Giacomelli
Concordo con te che si è scoperta l’acqua fresca,come l’acqua calda; sfortunatamente la scoperta dell’acqua fresca e calda, si è diffusa a macchia d’olio, in tutto il mondo globalizzato dell’arte e della cultura, anche nelle gallerie e musei cosiddetti alternativi. La Biennale di Venezia, in questi ultimi tempi, si è atrofizzata su se stessa e appare agli occhi dei visitatori come un’antica istituzione borghese in decadenza, dove viene esaltato in genere, l’ego dell’artista, sempre più privato di qualsiasi potere trasformativo, progettuale sulla vita e la società. Oggi l’umanità ha bisogno di arte, di scienza e tecnologia pulita. La Biennale di Venezia dovrebbe rinnovarsi nelle sue fondamenta e conseguire un nuovo ruolo nel mondo dell’arte che sappia rispondere alla lotta dei popoli per la vita. Dovrebbe liberarsi dalla “routin” istituzionale di “biennale” per aprirsi veramente alle istanze sociali e politiche di partecipazione provenienti dal contesto storico mondiale; in modo da sprigionare una nuova energia, un movimento progettuale serio e dinamico, che sappia rispondere alla crisi globale dell’economia e della cultura, con proposte costruttive, entro un processo naturale della vita individuale e collettiva. Solo così potrà sprigionare tutta quella forza vitale che è tipica dello spirito ribelle degli artisti. Questo rinnovamento dovrebbe avvenire all’interno di nuove dinamiche temporali e spaziali per diventare finalmente, non solo città deputata alla rappresentazione dell’arte, ma laboratorio universale, permanente, che elabora “filosoficamente” e progetta una nuova idea di società, di progresso civile e culturale,in un contesto mondiale egualitario, sia nella partecipazione, che nelle differenze d’idendtà culturali dei popoli.
Savino Marseglia
(spirito indipendente)
Ma perchè le persone non si concentrano su queste considerazioni così acute ed originali?
Perfettamente esposto, ritengo comunque che sarebbe il caso di espandere queste riflessioni per stigmatizzare il miserabile livello della giuria, che ha premiato un intervento sulla caffetteria che semplicemente non è un’opera, e ha dato una menzione speciale al padiglione furbetto scandinavo.
Ciao Gianpaolo,
sono d’accordo con te, però sai bene che lo spazio è limitato e non si può parlar di tutto. Ma è un ottimo spunto per un altro articolo.
I problemi sono tanti: i padiglioni a mio avviso dovrebbero esporre al massimo mid career, non un fuoriserie come Nauman, d’altra parte visto molto in Italia ultimamente (Rivoli, Napoli). E invece s’è aggiudicato il Leone per la miglior partecipazione nazionale. Il Padiglione di Singapore di Ming Wong è un a sorta di Morimura remixed, veramente nulla di che; per non parlare di Roberto Cuoghi, artista che io apprezzo molto, ma visto che è stato inserito in Biennale all’ultimo momento, ha presentato un lavoro del 2006. E ha preso una menzione. Mah…
mi trovo ancora una volta d’accordo con Giacomelli
Ragazzi, di cosa vi stupite? Nel sistema internazionale (come in quello italiano) si vive una crisi,prima di tutto di contenuti. Viviamo definitivamente la dittatura delle relazioni e la crisi dell’artista. La maggior parte degli artisti è interscambiabile mentre resistono solo i mostri sacri del 900 e le grandi individualità post-muro di berlino. Quindi non continuiamo a illudere e deludere. Va messo in discussione radicalmente il ruolo dell’artista e del linguaggio dell’arte contemporanea. Per esempio idolatrare in patria vascellari è assolutamente fuori dal tempo. E’l’ennesimo segno italiano (ma la situazione è parificabile con l’estero) che il sistema più attento non si sta accorgendo di nulla.
m.e.g. hai individuato molto bene il punto, perché “carina” è stato l’aggettivo di molte persone che esprimevano il proprio parere complessivo sulla biennale …
Bella recensione Marco…l’ho letta più di una volta!!