Sarebbe interessante analizzare provenienza geografica e dati anagrafici dei quasi novanta artisti invitati. Altrettanto intrigante chiedersi se
Making Worlds, l’esposizione internazionale curata da Daniel Birnbaum per la 53. Biennale di Venezia, si è rivelata o meno un’altra fiera d’arte contemporanea mascherata da mostra. In altre parole, se ci è toccato visitare la consueta rassegna in cui c’è posto per tutto e il contrario di tutto, oppure se sia stato approntato un kolossal con tanto di linee-guida. Nello specifico, vale la pena domandarsi se il titolo heideggeriano scelto dal direttore-curatore prefiguri un concept sviluppato come tale, o se al contrario proprio quel sostantivo declinato al plurale rappresenti l’annuncio di una compilation senza capo né coda. Superfluo stare a sottolineare che la Biennale d’arte di Venezia è soprattutto questo evento, al di là delle cosiddette partecipazioni nazionali e di eventi
a latere non sempre imprescindibili.
A proposito del “
fare mondi”, un possibile ambito tematico riconducibile alla figura dell’artista-demiurgo, l’artigiano-creatore di universi a sé stanti, i cui gesti “
mettono al mondo il mondo” – parafrasando
Alighiero Boetti – con modalità scopertamente o sottilmente fatidiche, è quello dell’intervento di tipo architettonico-ambientale. E in effetti non mancano, nel cast di
Making Worlds, artisti cui ascrivere un’estetica demiurgica declinata in quest’ottica, secondo un’idea di edificazione sovversiva o di rielaborazione mirabolante dello spazio collettivo.
Nume tutelare e capopattuglia di questi “anarchitettonici”,
Yona Friedman, architetto e artista, designer e teorico dell’architettura leggera, autore di un testo tuttora fondamentale in tema di urbanistica visionaria – correva l’anno 1975 – come
Utopie realizzabili. Degno contraltare, un mostro sacro dell’arte contemporanea,
Gordon Matta–Clark, la cui opera è interamente alle prese con il significato stesso di architettura.
Sotto la loro egida vanno collocati anzitutto tre
mid career lanciatissimi, qui alla prova del nove, specializzati nell’indagine sulla percezione degli spazi percorribili: il tedesco
Tobias Rehberger, il nostro
Massimo Bartolini e il più giovane
Tomas Saraceno, anch’egli di stanza in Germania (ma nato argentino). Da questi artisti non bisogna aspettarsi utopiche pianificazioni urbane né esplorazioni di smottamenti, ma, considerato anche il gap generazionale, strutture antimonumentali isolate e ambienti sorprendenti, lavori in bilico tra tensione costruttivista ed esperienza percettiva in fluttuazione libera. A parte loro, c’era attesa per i tre ispanici
Héctor Zamora,
Renata Lucas e
Jorge Otero-Pailos, e per i più esperti
Xu Tan, cinese, e
Marjetica Potrč, slovena.
Su un altro versante, l’artista-demiurgo è piuttosto un visionario i cui mondi da mettere al mondo sono costruzioni arazionali, cosmogonie scaturite dal pensiero intuitivo e riassunte in apparizioni emblematiche, senza possibilità di interazione fisica. L’ambito operativo comprende il lavoro a parete, l
a performance altisonante o la struttura-dispositivo a guisa di prototipo, in ogni caso fruibili dal di fuori. Per paradosso, le dimensioni reali di questi interventi si fanno più contenute, in accordo con la concentrazione richiesta all’osservatore e con la totalità ordinativa che si intende richiamare o inscenare. Anche certa ritrattistica atemporale alla
Gino De Dominicis (altro compianto qui in veste di caposcuola), va inserita tra queste pratiche ad alta densità evocativa, di taglio analitico ma dal sapore mitopoietico.
Un filone nel quale destano curiosità le suggestive performance installative dell’indiano
Nikhil Chopra, le visioni
psych della russa
Anna Parkina e le complesse animazioni dell’americano arrivato da Hong Kong
Paul Chan. Tutti e tre nati negli anni ‘70. L’Italia è ampiamente rappresentata, oltre che da De Dominicis, da
Grazia Toderi e dai virtualmente a duello
Alessandro Pessoli e
Pietro Roccasalva.