Singolare in
Making Worlds la latitanza di esseri umani nel campo rappresentazionale delle opere, a parte una manciata di episodi (
Ulla von Brandenburg,
Paul Chan,
Natalie Djurberg,
Hans Peter Feldman,
Alessandro Pessoli) ascrivibili ai registri del grottesco, dello spettrale, del misticheggiante.
In questo senso, la carrellata formalista e antidocumentarista messa su da Daniel Birnbaum risulta focalizzata e anche coesa: l’artista-demiurgo ha in mente soluzioni e non resoconti, è chiamato a presentare dispositivi o al più deduzioni a distanza, e a proposito delle vicende del mondo ha ben poco da
riferire.
Del resto, il mondo che conosciamo ha subito tre crolli (il Muro, le Torri, la finanza) in appena vent’anni. La stessa oscillazione proposta nel titolo, alla prova dei fatti si sostanzia ponendo l’accento sulla voce verbale, anziché sul sostantivo-foglia di fico. Secondo Birnbaum l’artista visivo non è un testimone, ma un progettista. Se non di mondi, almeno di angoli di mondi.
Making Worlds include quasi novanta nomi, si sviluppa su tre location (il Palazzo delle Esposizioni della Biennale, ovvero l’ex Padiglione Italia;
le Corderie dell’Arsenale e il Giardino delle Vergini) ma si visita in poco tempo, stante l’alto tasso di leggibilità e un’idea insistita di intervento artistico primario, aurorale e autonomo.
Una possibile chiave di lettura risiede proprio in questo, nel tenore iconofobo di molti lavori fin troppo arroccati, che non osando accelerazioni significative in termini concettuali (
Rachel e
Toba Kheedori,
Falke Pisano,
Sara Ramo,
Amy Simon,
Simon Starling,
Anya Zholud e altri), fatalmente finiscono per descrivere campi d’azione soltanto sgomberati. Un eccesso di cautela in salsa
horror pleni, al cospetto del quale si individua più concentrazione, oltre che polpa, nei generosi pattern installativi di
Moshekwa Langa o di
Thomas Bayrle, nell’estetica fumettistica di
Jan Håfström o
Pavel Pepperstein, nel teatro calligrafico del performer
Nikhil Chopra, o in quello meccanico del duo
Bestué/Vives (David e Marc).
L’impressione generale riguarda un appello alla sinteticità comunque condiviso, che agevola il direttore-curatore nell’impostare una sceneggiatura senza strappi, costruita a partire da consonanze spesso schiettamente esteriori (l’oro nella sequenza
Lygia Pape/
Michelangelo Pistoletto; le strutture tortili in quella
Carsten Höller/
Goshka Macuga; le luci della notte in
Grazia Toderi/
Chu Yun).
Making Worlds non sarà una mostra indimenticabile, ma una mostra tutta d’un pezzo sì. Zero effettistica tecnologica o quasi, zero o quasi
sex & violence (fa eccezione l’exploit della citata Djurberg), zero o quasi ironia (a parte un’ottima
Miranda July). Prevalgono l’elegante fissità di pratiche a bassa fedeltà (bravissime
Ceal Floyer,
Susan Hefuna,
Tian Tian Wang), il rigore anche scialbo di investigazioni di taglio modernista (
André Cadere,
Tony Conrad,
Cildo Meideles), l’appeal carsico di installazioni tutt’altro che interstiziali (
Sunil Gawde,
Sheela Gowda,
Huang Yonh Ping, lo stesso
Yona Friedman).
Nel merito, l’accennare a vario titolo a uno stadio embrionale si addice ai big
Philippe Parreno e
Wolfgang Tillmans, così come ai fuori quota
John Baldessari e
Joan Jonas, e alle compiante superstar
Gino De Dominicis e
Gordon Matta-Clark.
Discorso opposto per gli specialisti dell’arte relazionale e degli spazi percorribili, c
he ponendosi al servizio della causa si lasciano relegare in esterna (
Att Poomtangon,
Tobias Rehberger,
Rirkrit Tiravanija), o al più in apertura di mostra (
Massimo Bartolini e
Tomas Saraceno, entrambi in definitiva retorici).
È ad ogni modo encomiabile, a livello di fruizione, la scelta di presentare gli artisti tutti su uno stesso piano, a prescindere dall’età, dalla provenienza e dal blasone, in linea di massima senza indulgere in fastidiose isole pseudo-antologiche (a parte Tillmans, fanno eccezione gli omaggi a
Öyvind Fahlström e all’esperienza collettiva
Gutai).
Quanto ai contenuti, il verdetto di una mostra comunque importante come
Making Worlds appare fin troppo chiaro. Gli anni zero si chiudono nei pressi di un crocevia per ora muto, un po’ come le bandierine destrutturate su fondo
grisaille del progetto grafico di questa Biennale 2009, laddove l’arte del nostro tempo non ammette un effettivo ridimensionamento della nozione di “
campo allargato”, e tuttavia pare attestarsi su territori castigati, ai confini dell’indagine
tout court aniconica.