In periodi come questi, in cui pare che mantenere la parola data sia il mestiere più difficile del mondo, è quanto meno strano inoltrare simili richieste agli artisti ospitati nei padiglioni biennalieri. E invece ecco arrivare la smentita, proprio attraverso l’utilizzo azzeccato del caro vecchio linguaggio verbale.
È compito di due pilastri della ricerca linguistica applicata all’arte visiva inaugurare l’itinerario trasversale di attraversamento delle partecipazioni nazionali che ci apprestiamo a intraprendere. Uno è
Öyvind Fahlström che, con le mappe illustrate visibili a Palazzo delle Esposizioni, si pone come nume tutelare delle sperimentazioni verbo-visive. L’altra è
Yoko Ono, meritatissimo Leone d’Oro alla carriera, insigne animatrice di Fluxus nonché autrice di
Grapefruit. Istruzioni per l’arte e per la vita, dove sono raccolte molte delle sue esortazioni.
Le parole, intese come materiale da costruzione, declinate volta per volta secondo pratiche di recupero dell’oralità o della scrittura, sono al centro dell’operato dei protagonisti nei famigerati Giardini della laguna.
Nel Padiglione serbo, la parola viene ridata ai protagonisti della videoinstallazione di
Katarina Zdjelar, che intrattengono gli spettatori muniti di cuffie cantando
Revolution dei Beatles. L
’analisi dei processi comunicativi viene condotta attraverso un progetto relazionale che si avvale del conseguimento di un’abilità, non senza sfumature ironiche.
Lo scandire ritmico e cadenzato delle lettere che compongono il termine
F-l-a-m-m-a-r-i-o-n guida la narrazione di
Susan MacWilliam nel Padiglione nord-irlandese. La parola, nel caso specifico, è simbolo di un’apparizione, l’unico termine di relazione dei protagonisti del video, che nell’indagine condotta riforniscono la parola stessa di una valenza ectoplasmica.
Uno spazio completamente ridisegnato è quello che si presenta nel Padiglione tedesco.
Liam Gillick si affida alle forme rigorose e funzionali del mobilio modernista, puntellate in corrispondenza dei varchi d’ingresso da tende colorate, per instaurare un dialogo con l’architettura ospitante che appare interlocutorio. Così come il testo, pronunciato da un gatto, che riempie ogni angolo. “
Liam Gillick rappresenta un tipo di arte che si manifesta materialmente, ma il cui interesse principale è concentrato sulla retorica che contrassegna le sue installazioni, oggetti e scritti”, si legge nella presentazione di Nicolaus Shafhausen, e il modello del discorso è il più adatto alla formalizzazione di “
contro-interrogativi” che indagano “
la costruzione della storia, come pura la richiesta di utopie sociali e la loro realtà”.
Anche
Pavel Pepperstein al Padiglione russo non rinuncia alla scrittura, che fa capolino in calce a tutti i suoi dipinti, raffiguranti geometrici panorami futuribili. Gli scenari necessitano della definizione e della breve descrizione che li accompagna sul medesimo supporto. Immerse nella sala buia, le opere contenute in apposite teche sono accompagnate da una colonna sonora rap composta dall’artista, dalla quale trapelano le note di Stravinskij.
Il progetto
Guests di
Krysztof Wodiczko è apparentemente basato sulla forza illusionistica delle proiezioni che sfondano le pareti e il soffitto del Padiglione polacco. Le vetrate così ottenute non sono però trasparenti: permettono di scorgere le figure che si muovono al di fuori, senza però consentire una visione nitida. A un tale “spettacolo” visivo si accostano le testimonianze di quegli
altri a cui si rivolge lo sguardo. Le conversazioni, ricche di aneddoti ed episodi di vita vissuta, si accavallano aumentando la sensazione di una percezione sfocata.
I complessi allestimenti e le complicate installazioni tradiscono la necessità di un fiancheggiamento, esplicativo o indipendente, da parte della lingua. Che, nonostante il peso dell’età, si conferma come medium prediletto.