Categorie: biennale 2009

biennale 2009_opinioni | What still is to come?

di - 26 Luglio 2009
La Biennale di Venezia è una delle più importanti piattaforme artistiche, dove ogni Paese ha idealmente l’opportunità di dare una visione internazionale alla propria situazione locale. O almeno così dovrebbe essere. Il ruolo della Biennale non è segnalare l’andamento delle quotazioni di mercato, né consacrare ufficialmente artisti alla moda, ma indagare, con un certo spirito di ricerca, gli artisti e la loro contestualizzazione nel mondo nel quale viviamo.
Come altri, anche il Padiglione cinese è stato coinvolto da strane dinamiche. La maggior consapevolezza e libertà espressiva, acquisita in questi ultimi anni, hanno portato a una vera e propria esplosione di polemiche, sia tra i locali sia tra gli stranieri che, con responsabilità, da molti anni osservano le dinamiche contemporanee cinesi. Così la possibilità di portare all’estero una testimonianza del vero fermento culturale del Paese asiatico, ancora una volta, sfuma nella menzogna.
Lo sviluppo repentino di cui è stata vittima l’arte contemporanea cinese ha portato all’errata illusione di facili guadagni immediati, generando così corruzione e squilibri in tutto il sistema. Quest’anno il Ministero della cultura cinese ha designato per il padiglione ben due curatori: Zhao Li, professore all’Accademia di Belle Arti di Pechino, e Lu Hao, artista. Il 2009 rappresenta un anno molto particolare, nel quale ricorre anche il 60esimo anniversario della fondazione della Repubblica. Per questo il tema scelto, What is to come, guarda indietro al proprio passato e al contempo in avanti, sul futuro che ci attende. Gli artisti partecipanti, tutti in un’età compresa fra i 30 e i 40 anni, sono rappresentativi di questo doppio sguardo: Fang Lijun, He-Jin Wei, He Sen, Liu Ding, Qiu Zhijie, Zeng Hao, Zeng Fanzhi.

È una lista potente”, esordisce Gonkar Gyatso (artista tibetano residente a Londra, invitato da Daniel Birnbaum a partecipare a Making worlds), “tuttavia il problema non è la selezione dei lavori, ma l’ideazione del progetto. Lo spazio rappresenta una grande sfida: è difficile da gestire e le opere sono state totalmente inghiottite dalla location stessa”.
È dello stesso parere Vincenzo Sanfo, il curatore internazionale del Padiglione cinese: “Penso, e l’ho già detto molte volte, che il luogo in cui la Cina è ospitata sia del tutto inadatto, anzi direi quasi offensivo per un Paese quale è appunto la Cina. Per poter rendere, necessiterebbe di un intervento radicale o di un’idea espositiva che tenga conto dello spazio e quindi del tutto diversa da quella usata in questi ultimi anni”. Per Lu Hao “è stata un’esperienza molto interessante, sebbene io non sia un cosiddetto curatore professionale. Riguardo a ciò, sono d’accordo con Roger M. Buergel, il curatore di Documenta 12 di Kassel, il quale ha affermato che non esiste la curatela di professione”. “Non mi sento, però, di criticare”, continua Sanfo, “coloro che hanno fatto la selezione sia di questa che delle altre partecipazioni, conoscendo bene i problemi che stanno a monte. Sono tutti critici o personalità competenti, che però non hanno alcuna esperienza in merito a un evento chiassoso e disattento com’è la Biennale di Venezia”.
A ben vedere, infatti, non sembra che le varie partecipazioni della Cina siano mai riuscite a emergere, rispondendo appunto a queste esigenze di visibilità ed emozionalità. I risultati appaiono chiaramente nel silenzio della critica internazionale.
Con la Biennale di Shanghai del 2000, per la prima volta il Governo ha ufficialmente accettato l’arte contemporanea… Grazie al forte coinvolgimento, c’è stata una fioritura di organizzazioni e distretti d’arte in tutto il Paese. Quelli sorti Pechino e a Shanghai hanno ottenuto l’attenzione della comunità internazionale e gli scambi intercorsi con gli art circle stranieri hanno dato visibilità alle tendenze interne. In questo contesto, il Padiglione Cina alla Biennale di Venezia ha, per il Governo, il ruolo fondamentale di dimostrare la potenza culturale della nazione e simboleggia la sua partecipazione a livello mondiale alla costruzione dell’arte contemporanea. Tuttavia”, prosegue Dong Bingfeng, curatore, artista e redattore capo di “Contemporary Art & Investiment”, “l’organizzazione del padiglione non è mai stata democratica e la situazione non è migliorata nel succedersi delle quattro edizioni. Questo è sicuramente è un vero peccato”.

Qiu Zhijie, uno dei “magnifici 7” prescelti, generalizza e si difende: “Alcune persone suggeriscono che il curatore sia scelto attraverso un processo trasparente e democratico. Certamente potrebbe essere un buon metodo. Ma il risultato non sarà necessariamente migliore. Per quanto ne so, il lavoro curatoriale rimane sempre un’avventura e la migliore esposizione proposta o il miglior curatore candidato non esisteranno mai”. Senza dubbio l’evento “perfetto” non esiste e le biennali, in particolare, non sono mai amate. Lo scopo di una biennale non è, infatti, quello di essere più o meno piacevole, ma creare discussione. Tuttavia, nel “caso Cina” sembrano proprio mancare le basi per un dialogo propositivo.
Se i cinesi diplomaticamente stentano a riferire tutta la natura del loro disappunto, gli occidentali non ne fanno mistero. Meg Maggio, direttrice della Pekin Fine Arts, senza dilungarsi troppo la definisce “scontata per non dir di peggio”. “Senza forza creativa, decisamente moscia, ripetitiva nei toni e nelle nuance troppo orientali”: è il parere di Rosario Scarpato, titolare insieme a Monica Piccioni di OffiCina a Beijing; “il giovane promettente Liu Ding con quei ‘frigoriferi’ o ‘vending machine’ che dir si voglia, pieni zeppi di oggetti ready-made, non riesce a infondere il suo pensiero frastagliato; parte degli oggetti -non così assemblati- nel suo studio pechinese incutevano ben altro rispetto… E i tasselli di legno, coricati o abbattuti a effetto domino, del prolifico Qiu Zhijie, erano buttati lì sicuramente non a caso, ma come un’enorme piovra svuotata di linfa, accasciata sull’erba dell’area antistante il padiglione, sintomo eclatante della crisi imperante?”. Peccato riscontrare che l’artista Qiu Zhijie, solo la primavera scorsa, abbia presentato una strepitosa personale presso l’Ucca Art Center, che ha incantato tutta Pechino.
Non si trova alcuna logica nella dinamica per cui s’insiste a esportare prodotti di bassa qualità, quando gli addetti ai lavori based in China sono abituati a ben altro spessore. Lo sottolinea anche Vincenzo Sanfo, che suo malgrado ammette: “Mi spiace dover dire, per l’amore e il rispetto che ho nei confronti dell’arte cinese, che le edizioni passate sono state in alcuni casi anche al limite del ridicolo, con performance non riuscite, installazioni che non funzionavano… Tuttavia il padiglione di quest’anno ha dalla sua una sorta di candore, un pudore di fondo, direi quasi disarmante… Ma certo non si può dire che sia un gran padiglione. Sicuramente non è all’altezza di quanto invece è complessa e vitale la scena artistica cinese che, a mio avviso, può e deve incidere di più all’interno della Biennale, dando il suo contributo in maniera dirompente”.

Quindi, what is to come?. Chiediamo a Lu Hao in che maniera ritiene che i lavori presentati al Padiglione quest’anno possano essere rappresentativi dell’arte contemporanea cinese e del suo futuro: “È un tema molto ampio”, risponde il curatore, “e darò una breve risposta. Negli ultimi anni, prima del 2004-05, l’arte contemporanea cinese stava prendendo una direzione positiva. Ma, in seguito, il mercato ha rapidamente iniziato ad avere un ruolo troppo importante nel circuito artistico”.
A questo proposito interviene Huang Zhuan, artista di fama internazionale, affermando che il presente è “il momento più buio nella storia dell’arte contemporanea cinese”. Lu Hao ammette che le persone sembrano preoccuparsi solamente dei prezzi, cataloghi e ogni cosa connessa con il mercato e “anche gli studenti d’arte trascorrono tutto il giorno a pensare come realizzare opere con simboli cinesi al fine di compiacere il mercato. Oltre alle considerazioni materiali, l’artista deve dare più attenzione alle proprie idee e all’esercizio spirituale”.
Prima della nascita del mercato artistico, l’arte era in Cina un nuovo mondo da esplorare, un movimento che progrediva sulla “retta via”. Quindi “oggi l’arrivo della crisi finanziaria può essere una cosa positiva”. Una mente sgombra da velleità economiche dovrebbe quindi riportare gli artisti a un più responsabile art-making, e i collezionisti a più serie valutazioni. “Perché molti soldi sono stati spesi per l’acquisto di spazzatura”.

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Intervista con Yan Pei-Ming

a cura di cecilia freschini
in collaborazione con dai weiping

[exibart]

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