Sguardo autoctono esonerato da esotismi “souveniristici” per l’Egitto, presenza storica alla Biennale. Il Padiglione ai Giardini è saturo dell’odore delle foglie di palma, con cui
Ahmad Askalany realizza sculture monumentali. Intrecciando un materiale povero che appartiene alla propria identità, l’artista modella silhouette che respirano la spontaneità della vita di quartiere: il venditore di pane sulla bicicletta, l’incontro di due donne, l’uomo che fuma il narghilè. Ritmo narrativo che lascia trapelare tracce d’inquietudine alla
Schiele, invece, per
Adel el Siwi. “
Dal cuore della vita quotidiana egiziana”, afferma il pittore, “
luogo dell’energia che non riesce più a convogliarsi in grandi imprese, dal muoversi della gente e delle cose, nascono dei monumenti immateriali, come colossi contemporanei, tropici, ibridi e autentici al tempo stesso”.
È un momento di riflessione sul tema della tradizione – come patrimonio culturale da preservare – il Padiglione delle Comore, che debutta col progetto dell’italiano
Paolo W. Tamburella. L’artista ha restaurato una tipica barca in legno (‘
djahazi’), usata da centinaia d’anni per il commercio e la comunicazione. L’azione di portare il barcone in laguna, ormeggiandolo in prossimità dell’ingresso ai Giardini, non ha un sapore nostalgico; piuttosto, è un gesto di contestazione delle scelte socio-politiche del governo delle isolette poste tra il Mozambico e il Madagascar, che dal 2006 – in fase di modernizzazione – ne ha proibito l’uso.
Un monito che mette in guardia sui possibili danni della globalizzazione è anche quello di cui, analogamente, si fa portavoce
Yvette Berger, in arte
Owanto, francese di nascita (la madre è del Gabon) e spagnola d’adozione, scelta a rappresentare il Paese africano. “
Dove stiamo andando?” si chiede Owanto, mettendo i suoi segnali antropomorfi in diversi contesti urbani – il caos colorato di una via africana, il traffico di New York o Tokyo – per poi lasciarne traccia fotografica. Approdata alle arti visive da una formazione filosofica, l’artista sottolinea così il suo ruolo di testimone.
Anche
Mahi Binebine, tornato a vivere nella sua città dopo un lungo periodo parigino e newyorkese, parla di condizione umana. Pittore, scultore e scrittore (
Cannibali è il primo romanzo uscito in Italia), Binebine rappresenta il Marocco insieme a
Fathiya Tahiri, architetto e presidente della Fondazione del Museo Hassan di Rabat, invitata anche alla 51. Biennale. La sua scelta coerente è di non dimenticare un momento travagliato della storia del suo Paese. Sembrano lontani gli anni della dittatura di Hassan II, ma le maschere con i volti contratti in smorfie di dolore e gli occhi tappati dalla censura sono lì, a memento. Soprattutto nel contesto dei colori puri da cui emergono, i pigmenti naturali della tradizione marocchina: zafferano, porpora, ocra e blu Majorelle.