Alla 53. Biennale di Venezia, la presenza artistica della cosiddetta
Area balcanica (Croazia, Montenegro, Slovenia e Macedonia, eccezion fatta per Kosovo, Bosnia Erzegovina e il Padiglione dell’ex Jugoslavia) si mostra lieve e sapiente, talvolta eccessiva e persino violenta. Fra le sedi sparse, chiuse in campi e campielli, fra palazzi introvabili e roccaforti di prestigio, la cultura balcanica riverbera. A volte seguendo la dignità del concetto (che le è propria) e altre volte, invece, attraverso l’inutile ostilità dell’esagerazione.
Nella scarpiana Querini Stampalia, la Croazia espone con
Elaborazione pittorica della sensibilitĂ e della realtĂ i pittori
Nikola Koydl,
Zoltan Novak e
Matko Vekić. Attraverso tele di grandi dimensioni e di recente fattura, i tre artisti sembrano intersecarsi tra loro, formando una fitta linea di vie simboliche e vedute urbane. Sebbene i colori compatti di Koydl si differenzino dalle sfumature screziate di Novak e dalle slavature interrotte nelle colature di Vekić, è pur vero che le opere tridimensionali (grandi gabbie metalliche dal sapore medioevale) di questi tre autori, esposte nelle stesse sale, inviluppano i punti di vista liberati nelle tele, fissandoli sull’aria. Le opere, installate negli spazi più suggestivi della fondazione, restano eccessivamente soffocate dall’involucro architettonico, dove la bellezza dell’atto creativo rischia di trasformarsi in un esercizio di tipo geometrico.
Per quanto riguarda lo Stato del Montenegro, è di scena
Zorzi elegies, teatralizzante, rude e grottesca personale di
Dado (al secolo
Miodrag Djuric). A Palazzo Zorzi, infatti, sede degli Uffici Regionali dell’Unesco, il flusso debordante di pennellate rosse, rottami impilati e corpi di bambola invade la corte settecentesca. I pochi metri quadri del giardino
intra moenia sono una sorta di
Wunderkammer a cielo aperto, un intreccio composito legato da sangue finto e rappreso, da bombole del gas e da reperti/rifiuti che, a causa del loro stesso ripetersi, seppure sotto diverse forme, perdono senso.
Da elogiare, per destrezza e semplicità , il Padiglione sloveno, incastrato fra i muri della Galleria A+A, nei budelli dietro il ponte dell’Accademia. Qui
Miha Štrukelj disegna i muri bianchi, costellando l’architettura compressa della galleria con reti appena accennate che si dipanano a variabili
zero, secondo il titolo del progetto:
x=0 / y=0. Questo lavoro totalmente veneziano è una combinazione di ritratti che usano l’intonaco come supporto ideale per demistificare l’interezza delle immagini, la chiarezza della visione urbana, l’identità cittadina e l’individualità quotidiana.
Infine, per il Padiglione macedone, allestito presso il Collegio Armeno di Palazzo Zenobio,
Goce Nanevski propone
Fify or fifty, una macchina nera di grandi dimensioni, un enorme abaco con cinquanta file di cifre. L’enorme apparecchiatura, come una parete, scorre lungo due binari tirata da altrettanti cavi d’acciaio. Cambiando, a ogni giro, la composizione dei propri numeri.