Nel cuore di un’Europa la cui unione si fonda ancora sul paradigma di una comunità innanzitutto economica, non fa specie che si risenta della crisi e la si possa anzi rovesciare in una questione d’identità. È per questo, forse, che i padiglioni di Olanda, Belgio e Lussemburgo danno l’impressione di riflettere sull’identità del territorio, scandagliandolo dall’interno o al di là dei suoi confini.
Jef Geys parte dal concetto di
terroir, con cui in enologia si descrive il luogo d’origine di un vino come somma organica di elementi eterogenei, che vanno dalle caratteristiche del terreno alla presenza di insetti, alle tecniche di coltivazione. L’artista belga lo reinterpreta in chiave etno-biologica, come descrizione del territorio naturale che vive al di sotto di quello urbano, chiedendo a quattro persone, tra New York, Bruxelles, Mosca e Villeurbaine, d’individuare dodici piante selvatiche che crescono spontaneamente nel loro quartiere. In seguito ne sviscera le proprietà su
quadrae medicinali, erbari costituiti da mappe, fotografie e riproduzioni delle piante individuate indicanti le loro caratteristiche, e disegni che reinterpretano le forme vegetali attraverso accostamenti a corpi e parole.
Il padiglione lussemburghese sposta l’attenzione dall’interno di un territorio ai suoi confini, indagando i bastioni della
Fortezza Europa, Gibilterra e Sicilia, che separano il Nord dal Sud del mondo. Zone di collisione, come suggerisce il titolo della mostra, prendendo spunto dai movimenti della crosta terrestre e dall’inesorabile deriva del continente africano verso quello europeo. Sulle pareti delle quattro sale del padiglione,
Gast Bouchet e
Nadine Hilbert fanno dialogare video e fotografie dai toni bluastri, sovrapponendo diverse inquietudini, tra periferie e grotte naturali, insetti impigliati e immigrati solitari, rese ancor più ansiogene dalla colonna sonora di ronzii meccanici e frizioni stridule. Immagini d’ansia e d’attesa, di un’Europa ossessionata dal terrore di un’invasione e di uno scontro sui suoi confini, che miete migliaia di vittime all’anno, ma soltanto dalla parte degli invasori.
Nel padiglione olandese, la riflessione su identità e differenza varca i confini sulle tracce delle celebri memorie di viaggio di un mercante veneziano.
Fiona Tan indugia sulle modalità di rappresentazione della propria identità e di quella degli altri. In
Disorient lo fa sulla scorta delle
Città invisibili di Italo Calvino, interpretando il racconto di Marco Polo come una continua descrizione della città da cui è partito, Venezia, che parlando di altre culture continua a mostrarci la propria.
L’elegante videoinstallazione segue un doppio binario, su due schermi opposti, mostrando la scissione dell’individuo che ricorda rispetto al suo presente, mettendo a confronto il racconto delle memorie di un viaggio di 700 anni fa con immagini di vita quotidiana nell’estremo e vicino Oriente dei nostri giorni.