Forse uno dei migliori scenari – in termini di veridicità della rappresentazione e di difformità dell’arte dal proprio statuto d’isolazionismo dal mondo -, uno dei migliori padiglioni di questa 53. Biennale è quello organizzato dal Messico negli spazi di Palazzo Rota-Ivancich.
¿De qué otra cosa podríamos hablar?, personale dell’artista vivi-sezionatrice
Teresa Margolles, emerge fra gli eventi della Biennale, portando alla ribalta un Paese rappresentato solo per la seconda volta in laguna. La mostra tronca violentemente con qualsiasi tipo di perbenismo estetico di maniera, distorsione utile a conferire, come da cerimonia, un palcoscenico culturale stereotipato. Un formalismo di facciata che spesso si crede d’essere di esempio, nei confronti di padiglioni e di Paesi altrettanto problematici.
Imbrattando un antico palazzo veneziano, Margolles si permette di lasciare come propria traccia di sé dei residui (simbolici) di uccisioni avvenute in perfetto stile esecutorio. L
’odore sembra infatti inconfondibile. Così, mentre ci si addentra nel chiaroscuro dell’installazione, quasi senza accorgersene si arriva a camminare in mezzo a stanze semivuote, che contengono però una forte presenza. Una premonizione di contagio.
Il progetto di Margolles condanna criticamente la situazione del Messico, dove il livello di violenza legato al traffico di droga ha instaurato regimi di guerra. Ogni lavoro esposto ritrae una condizione di globalizzazione dove il consumo regola la giustizia sociale, l’indipendenza culturale e il degrado dovuto alla non-integrazione. Come in una sorta di reportage del terrore, le parole che indicano la morte entrano nel Padiglione del Messico installando una cronaca acuta e penetrante dove vizio, proibizione, dipendenza, accumulazione di ricchezza, povertà, odio e repressione si confondono con i valori puritani del Nord (dell’Inferno del Sud).
Dedicato, invece, alla scomparsa della sua curatrice, Irma Arestizábal, il Padiglione dell’Istituto Italo-Latino Americano propone
Mundus Novus. Arte Contemporanea dell’America Latina.
La mostra seleziona un gruppo di artisti che hanno saputo, sul tema del
Making words, interpretare l’America Latina come un mondo coeso e ragionato. Un piccolo universo che esalta la propria storia, i propri culti religiosi e la propria territorialità, per rileggere l’intera situazione della storia mondiale, l’esterno dove s’agita il caos.
Il Padiglione dell’Iila è un ortus sintetico: 700 metri quadri che grondano di tradizioni e paradossi, di colori della natura (
Fernando Falconi) e viaggi scientifici (
Alberto Baraya), di materiali già visti (i copertoni piumati di
Darío Escobar) e parole mai aspettate (
Paul Ramírez Jonas).