In Biennale, lungo calli e campielli, non è mai semplice raggiungere le sedi degli eventi satellite. Il Padiglione dell’Azerbaijan, quello della Georgia, dell’Asia Centrale e dell’Ucraina sono tra i più dispersi di tutta la laguna. Ingigantendo ancor più le distanze, nei rapidi giorni di vernissage. Il solo punto a favore dei progetti delle ex Repubbliche sovietiche è la
sorpresa. Elemento a volte senza qualità, che però rallenta piacevolmente il tempo di visita. Nonostante la fatica per intraprenderla.
Sulla Giudecca, presso la mediateca CZ95, nei saloni luminosi della sede insulare è allestita la collettiva azera,
Cogito ergo sum. Ogni autore presente appartiene però con
troppa verosimiglianza alla scena dell’Azerbaijan. Miniature, tappeti e un tradizionale tipo di melodia, il
mugham, sono gli elementi trasmettitori di una cultura (artisticamente) lasciata troppo in disparte. Da ricordare, dunque, la posizione politica di
Salakhov, che re-interpreta il Realismo socialista. Si tratta d’uno dei principali esponenti della scena locale, essendo riuscito per lungo tempo a comunicare attraverso l’arte, anche nel periodo di repressione sovietica. Da curiosare, attorniati dalle atmosfere buie e ombrose dei dipinti alle pareti (si veda
Najafov), gli interventi
luminosi sui tappeti del
Khatt Art Group e le intricatissime grafiche di
Nayla Sultan, che riprendono la tradizione della miniatura.
Sulla riva di fronte, alle Zattere, il Central Asian Pavillion a Palazzo Molin è intitolato
Making Interstices: una collettiva che racchiude opere video (da ricordare il latteo
SPA Mummification di
Oksana Shatalova), fotografie (il reportage nostalgico di
Kholikov) e due installazioni (
Artist asleep, della coppia
Vorobyeva & Vorobyev).
Maggiormente criptica e fuori d’ogni schema la sede del Padiglione Georgia. All’interno di tre saloni collegati da un cortile interno,
Koka Ramishvili presenta
Change in Drawing Orchestra. Il progetto è un’installazione audiovisiva doppia che, ancora una volta, prende in esame un fatto storico-politico come la rivoluzione georgiana, attraverso un continuo oscillare tra nuove tecnologie, processi di scrittura classica e distorsione amplificata dei suoni.
Di sicuro, maggiore e ridondante impatto è il Padiglione Ucraina. Con
Steppes of Dream, in laguna compare una vera e propria strizzata d’occhio fashion al mondo dell’arte contemporanea.
Illya Chichkan,
Mihara Yasuhiro e
Ogata Kinichi, direttamente dalla Pinchuk Art Centre, costituiscono un trio di artisti nippo-ucraini che mette lo spettatore nella posizione sognante di chi compie un viaggio ai limiti della coscienza. Fra sabbia, vesti leggere, burattini in legno e le pareti antiche di Palazzo Papadopoli.
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Interessanti questi padiglioni soltanto devono forse crescere ulteriormente anche se ci sono delle ottime individualità.
Alcune realtà sono predenti alla Biennale di Istanbul di prossima apertura.