A leggere gli stampati a supporto della mostra di
Liam Gillick per il Padiglione tedesco s’imparano molte cose. Innanzitutto, che il punto di partenza è lo spazio che la ospita, reso dalla Germania nazista uno dei suoi simboli.
Gillick riprende in mano il progetto di riformulazione firmato da
Arnold Bode nel 1957, mai realizzato, per proporre una suddivisione più funzionale della struttura e per cancellare, per quanto possibile, l’aria magniloquente di una storia non edificante. Il problema è che, per quanto suggestivo e affascinante, tutto questo, in mostra, non si vede. Soprattutto perché il meccanismo va a incepparsi con l’autobiografia.
La suddetta ripartizione, operata tramite i moduli di una cucina, ripropone a Venezia l’habitat di lavoro dell’artista. Non manca il suo gatto sulla sommità del mobile che, stando sempre alla letteratura, dovrebbe essere “animatronico” e quindi parlare, ma sembra solo impagliato. Ciò che resta visitando il padiglione è un certo scetticismo. Ciò che rimane documentandosi sul progetto è la sensazione di una buona idea indebolita dalla voglia di strafare. Ma anche una domanda: quanto avvicina un’arte da leggersi col manuale?
Si risolve meglio la mostra di
Silvia Bächli per il Padiglione svizzero. Il rapporto tra forma e segno trasforma l’uomo in misura della natura. Il corpo è metro del paesaggio che lo circonda e della composizione pittorica, sia nelle opere più esplicite, nelle quali i corpi sono chiaramente percepibili, sia laddove la fisionomia sfuma in astrazione.
Nella Chiesa di San Stae, invece,
Fabrice Gygi gioca con lo spazio occupandolo con presenze non convenzionali, impalcature da stoccaggio détournate in un contesto che non appartiene loro.
Il Padiglione austriaco presenta tre modi diversi di fare arte,
interpretando ragionevolmente il senso della partecipazione nazionale.
Elke Krystufek (
Tabou Taboo, 2009) propone una pittura gestuale, all-over, che si svolge su più registri, tra volti emaciati, parole in libertà , simboli sessuali. Rigorosa e per niente istintuale è
Dorit Margreiter (
Pavillion, 2009): come Gillick, l’artista austriaca va a confrontarsi con le origini storiche dello spazio ospite, ragionando tuttavia sull’architettura come scenografia per l’arte e sulla sua eventuale attualità nel contemporaneo, con un metafilm in bianco e nero, dal sapore un po’ d’antan.
Chiude il percorso il duo
Franziska & Lois Weinberger, che coerentemente con la loro poetica si confronta con lo spazio esterno al padiglione, in un rapporto viscerale con la natura (
Laubreise, 2008-09). Una struttura separata fa da cornice a un grande cubo di foglie marcescenti, simbolo della transitorietà della vita e della coincidenza, non casuale, tra le parole “cultura” e “coltura”.
Lo affianca un’installazione che raccoglie e documenta l’opera degli artisti dagli anni ’70 a oggi, ben raccontata, con interviste e testimonianze, inoltre, dal volumetto a cura di Claudia Zanfi,
The Mobile Garden, presentato in mostra per l’occasione.