Deludente, seppure ben evidenziata all’interno dei percorsi principali della 53. Biennale, l’area latino-americana (che comprende Brasile, Argentina, Cile e Uruguay) denota una triste tendenza alla rappresentazione di se stessa, seguendo stereotipi rielaborati, filtrati e infine deformati dall’occhio della cosiddetta Europa. Un’area, dunque, per questa 53esima edizione, che non fa altro se non rielaborare sgargianti decori di una linea estetica che sembra aver sviato (quasi per sempre) dalle radici culturali di millenaria, sapiente appartenenza.
Nel Padiglione brasiliano, le manifestazioni pittoriche di
Luiz Braga e
Delson Uchôa rumoreggiano chiassose, rimbombando in mezzo alle pareti bianchissime negli spazi dei Giardini. Chi entra nelle due sale per scoprire una selezione di quel che sta diventando il terreno dell’arte contemporanea in Brasile si trova invece davanti a una sorta di “ricaduta formale” non esaustiva; una doppia personale articolata al solo scopo di rappresentare una minoranza commerciale del contemporaneo. Sperando che i diari fotografici astratti di Braga e l’uso acido di acrilici pseudo-folkloristici da parte di Uchôa non scoraggino gli avventori, ci si augura che fra le opere esposte in laguna si riesca ancora a percepire l’esperienza d’una pratica prodotta dalla singolarità di un territorio e dalla fruizione delle sue distanze.
Ancor più scadente la
grana del lavoro esposto nello Spazio Eventi della Libreria Mondadori, alle spalle di San Marco, per il Padiglione Argentina.
Luis Felipe Noé, scrittore, pensatore e sperimentatore, si presenta in laguna con una modesta installazione pittorico-murale, che proclama un flebile richiamo a nostalgie di un passato glorioso, ma che in verità resta una composizione di dieci tavole dipinte secondo vertici stratificati e squillanti. Una rappresentazione (si spera) lontana di un travaglio storico-estetico del mondo culturale argentino.
Perlomeno di maggior impatto il Padiglione Cile. Allestito negli spazi fitti dell’Arsenale, occupa con
Threshold una stanza oscurata dell’immenso deposito di mattoni rossi.
Iván Navarro installa un lavoro suddiviso in tre parti, intitolate
Death Row (una serie di varchi colorati e luminosi),
Resistance (un risciò al neon) e
Bed (un pozzo di specchi). Un breve, baluginante viaggio fra accessi e passaggi, compiuti dal mondo reale all’illusione.
Infine, da curiosare con un po’ più d’interesse il Padiglione Uruguay ai Giardini. Qui i lavori di
Raquel Bessio,
Juan Burgos e
Pablo Uribe mostrano tecniche, supporti, materiali, contenuti ed estetiche che rimandano a modelli e linguaggi di mondi plurimi. I tre progetti sono stati creati seguendo linee artistiche, componenti e strutture che restituiscono differenti prospettive: se dunque il video in scala 1:1 di Uribe (
Atardecer) crea attesa e malinconia, gli arazzi illustrati di Burgos fanno rifiorire l’aria, mentre a pochi metri, davanti all’ingresso, i fiori oscuri di Bessio sostengono la funerea presenza dell’arte.