Israele presenta un solo artista,
Raffi Lavie. In mostra, una serie di dipinti su tavola realizzati negli ultimi anni prima della sua morte, avvenuta nel 2007. Quadri caratterizzati da linee e tratteggi, scarabocchi e pennellate di colore all’apparenza casuali. L’artista scalfisce lo sfondo dipinto disegnando come un bambino scalette e rari omini stilizzati, paesaggi che non esistono, se non nascosti nei graffi del colore, scheggiati in rette tremolanti che s’intersecano senza una meta o vorticose nel gesto istintivo.
Lavie è celebre per il suo stile fanciullesco ma soprattutto per le cancellature, eseguite con tratto nervoso o pennellate corpose. Guarda a
Klee,
Dubuffet e
Rauschenberg, artisti che potevano permettersi di esplorare nuovi linguaggi senza correre i rischi di un Lavie, isolato nel proprio contesto culturale.
Molto più complesso il Padiglione palestinese: schiera sette giovani artisti con capofila la vincitrice del Leone d’Oro alla scorsa edizione della Biennale,
Emily Jacir. Acuta e pragmatica come sempre, si limita a scrivere in arabo i nomi delle fermate del vaporetto della linea 1, per sottolineare e ricordare gli scambi culturali passati e presenti tra le due civiltà.
In questo frangente è più difficile che altrove scindere l’arte dalla politica.
Sandi Hilal e
Alessandro Petti invitano a entrare nel ghiaccio dell’assurdo in un ambiente totalmente oscurato e insonorizzato. Si rabbrividisce nel buio, ascoltando brani di conversazione, spesso stralci di trasmissioni radiofoniche. Subito non si coglie la drammaticità dei comunicati superficiali, dei messaggi pubblicitari. Siamo a Ramallah, città lontana dalla disgregazione del mondo palestinese: ultramoderna, vitale, piena di locali e attività. Un universo parallelo all’occupazione, in cui i giovani possono quasi dimenticare che, a pochi chilometri, il progresso si è fermato. È la “sindrome di Ramallah”: un’allucinazione della normalità.
Più concreto il lavoro di
Jawad Al Malhi, legato alla sensazione claustrofobica ricorrente nei campi di rifugiati della città di Gerusalemme. Sono grandi fotografie piene, modulari nella ripetizione ossessiva. Sembra l’esperimento di un
Le Corbusier che si sia divertito ad ammassare cubi con finestre in cemento, in strati sovrapposti.
Infine, va citato
Khalil Rabah, che ha sognato e realizzato la Riwaq Biennale, con sede in cinquanta villaggi della Palestina. Le cartoline di questi luoghi sono sorprendenti, a testimoniare che esiste una fitta rete di realtà pronte a ospitare il mondo dell’arte che desidera conoscerle.
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La mostra degli artisti palestinesi è tra le più significative del circuito biennale,
hard, people are hayped, so that brought Palestine more on the international platform, and so the whole world was aware of what Palestine alla about.
Good job about sandy,B