Si può dire subito, senza tema di smentita, che la vera mostra del Padiglione inglese si annida nel farraginoso sistema di prenotazione concepito durante i giorni dell’inaugurazione per le proiezioni di
Giardini, l’ultima opera dell’acclamato artista-regista.
Finalmente, mentre le hostess in rigoroso completo nero ripetono ossessivamente di spegnere i cellulari, le luci si smorzano e partono le due proiezioni parallele su sfarzosi schermi affiancati, un brivido scorre lungo la schiena: anche
Steve McQueen è caduto vittima della famigerata “sindrome di Venezia”. Il suo ragionamento per il Padiglione dell’Inghilterra è stato pressappoco il seguente: “
E adesso che faccio per la Biennale? Prendo i Giardini d’inverno, con i cani che razzolano e l’immondizia per terra, e li faccio vedere agli spettatori freschi dello stesso ambiente tirato a lucido, poi ci appiccico sopra tutta la faccenda delle identità nazionali e del colonialismo, e il gioco è fatto”.
Non proprio. Perché
Giardini risulta decisamente pretenzioso e banalotto, ma anche un po’ svogliato. Che cosa ci sia poi di “non-narrativo” – come strombazza il lussuoso libretto-comunicato stampa – in questo film di 30 minuti non è dato sapere: la non-narrazione è roba fina; questa è, molto più semplicemente, narrazione noiosa, sciatta, che purtroppo il superbo lavoro di montaggio non riesce a risollevare più di tanto.
Viene dunque il sospetto che il meccanismo “esclusivo” messo in atto all’entrata altro non sia che una strategia per tenere gli spettatori, alla termine di tanti sforzi, incollati dall’inizio alla fine, invece di lasciarli cordialmente scivolare via verso il prossimo Padiglione.
Per la Scozia, con
No Reflections Martin Boyce allestisce una mostra di sculture evocative e disciplinate – su tutte
Gravity Pavilion e
A Raft in the Roof – che ricordano da vicino gli oggetti e gli strumenti di tortura del
1984 orwelliano nella versione cinematografica di
Michael Radford. Tra panchine trasformate in simil-paraventi che fanno
pendant con gli infissi originali delle finestre (
Two Benches), gabbie di ferro declinate in diversi colori e forme antropomorfe (
There are Places), l’arte di Boyce è una versione impegnata del revival modernista.
Su tutt’altro fronte si muove invece
Susan MacWilliam, che con l’Irlanda del Nord chiude il Padiglione “collettivo” della Gran Bretagna. L’artista presenta tre videoinstallazioni esemplificative del suo lavoro, incentrato sull’indagine del paranormale e della parapsicologia. Nel più riuscito,
F-L-A-M-M-A-R-I-O-N (2009), una misteriosa fotografia del 1931 che ritrae un “teleplasma” diventa il fulcro di un intreccio complesso e ben congegnato di reazioni, evocazioni e personaggi (tra cui un poeta di Belfast e un investigatore di
poltergeist).
Meno efficaci
Eileen (2008), sulla medium irlandese Eileen J. Garrett, e
Dermo Optics (2006), sul laboratorio di dermo-ottica di Yvonne Duplessis a Parigi, in cui mancano immediatezza e spontaneità: la necessità del “libretto d’istruzioni” rende sempre difficoltosa la fruizione.
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a martin boyce preferico domenico bianchi.
giusto giudizio su mc queen, mi ero un po' sbagliato....