Sono spesso gli stereotipi a guidare la lettura dei fenomeni artistici di Paesi lontani o verso i quali l’apertura al mondo è stata recente. Non sfugge a questo destino la Russia, imprigionata dalla convenzione che l’arte si sia evoluta in forma unidirezionale dal periodo sovietico agli anni dopo il crollo del Muro. Ma è vero il contrario, tanto più che – come mostra
That Oscure Object of Art, promossa dalla Stella Art Foundation – già ai tempi del regime esistevano correnti underground che spesso sono state fucine di artisti diventati famosi anche in Occidente, come la coppia
Kabakov.
È così possibile scoprire come in quel Paese non sia mancato il pop concettuale, come nelle scritte luminose al neon di
Leonid Sokov o, in versione ironica, nel marinaio di marmo di
Boris Orlov e negli interventi sulle pagine della “Pravda” di
Vagrich Bakhchanyan, di notevole spessore. Nella mostra si delinea un Paese sfaccettato, differente dal monolite ignoto che appare, anche se non sempre chiaramente intelligibile.
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Unconditional Love, proposta del National Centre For Contemporary Arts di Mosca: un progetto che coinvolge giovani russi e nomi già affermati. Non mancano le declinazioni dell’amore, dalla fotografia quasi narrativa di
Youssef Nabil a un luciferino ma scontato
Wim Delvoye, che mostra le radiografie di un uomo cui è praticata una
fellatio. Coinvolgente l’installazione video degli
AES+F, che riprende l’episodio della
Cena di Trimalcione dal
Satirycon Petronio, con la Settima di Beethoven come colonna sonora a tutto volume, mentre meraviglioso è il video di
Marina Abramovic, che documenta una performance del 1980 in cui il suo compagno trattiene una freccia collocata su un arco teso dal colpire l’artista al cuore.
È invece un tributo moderno a
La vittoria sul Sole il Padiglione russo. L’opera futurista del 1913 di
Aleksej Kručеnych (con scene e costumi di
Malevič) è presentata come punto di partenza per una riflessione sulla contemporaneità e sulle dinamiche del vuoto che precede la catastrofe, quella bellica e sociale di allora, quella economica e ambientale ora. Così
Anatoly Shuravlev comprime personaggi noti della storia nella dimensione di puntine da disegno, mentre a centro stanza danzano mosse dal vento delle sfere vitree che penzolano dal soffitto come fossero spade di Damocle.
Alexey Kallima fa della sala una tribuna di calcio malamente illuminata con lampade di Wood, con tanto di contributo sonoro di fischi e persone che si agitano, mentre all’improvviso l’ambiente s’illumina di bianco.
L’opera più significativa è
Il Rosso e il Nero di
Andrei Molodkin: due copie della Nike di Samotracia in vetro trasparente, alternativamente innestate dai colori del fascismo e del comunismo. O del petrolio e del sangue. Ma, in un mondo come il nostro, sull’orlo del baratro, non fa alcuna differenza.
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Gentile Daniele,
permettimi una piccola correzione. Il lavoro di Molodkin è composto da due Nike contenenti una petrolio ceceno, l'altra sangue di soldati russi reduci dalla guerra in Cecenia, penso che la puntualizzazione sia importante da un punto di vista concettuale, almeno è importante per chi, un'ora dopo l'inaugurazione ha fatto cancellare le didascalie che lo spiegavano. Posso garantire che all'apertura tali scritte c'erano.
Caro Giampaolo, grazie per la puntualizzazione. Avevo sintetizzato nell'articolo, privilegiando una una lettura più filosofica, ma la precisazione (geo)politica che tu fai risulta invece centrale se pensiamo che l'installazione è ospitata nel padiglione della Russia. Il che dimostra il coraggio dell'artista di tirare pugni in pancia infischiandosene dei politici e della propaganda di casa propria. Un motivo in più di coraggio insomma.