La Biennale va vista con occhio diverso. Ogni mostra pretende il suo: per questo a uno stesso occhio possono risultare piacevoli gli Uffizi e il MoMA, che per contenuto sono antitetici. La maggior parte dei giudizi dei visitatori sulla Biennale di Venezia è in realtà un pregiudizio, un giudizio formulato ancor prima di mettere piede nei padiglioni. Questo perché da una parte ci si lascia sopraffare (volentieri) dalla potenza dei gusti personali, ancor più forte quando la fruizione dell’arte è ritagliata nei periodi di vacanza, in cui più facilmente si mollano i freni delle emozioni; d’altra parte, anche quando vogliamo essere i più obiettivi possibile, tendiamo a ritenere che l’arte sia immutabile nei suoi principi, cioè che al di là delle sue manifestazioni contingenti sia possibile utilizzare gli stessi parametri di giudizio per le opere di
Botticelli e
Duchamp.
Se i parametri estetici sono i sentieri guida dell’analisi dell’arte, non possono essere gli unici. L’arte contemporanea è un fenomeno nuovo che sottosta a un processo integrato di fattori diversi, ciascuno facente capo a una sua committenza. Volendo essere drastici, il criterio ispiratore dell’arte oggi non è più l’amore del bello e del vero (secondo la poetica definizione di John Keats) ma sono principalmente i soldi, l’ego e la ricerca della notorietà.
Quindi fa il suo ingresso nell’arte l’economia con tutti i suoi momenti collaterali che si chiamano marketing, produzione, new media, moda. Questa pluralità di fattori si è tradotta in un’apertura della creatività e in una nuova forma di democrazia artistica, veicolata dai progressi della tecnica. Una vasta platea di
would-be-artist si ritaglia l’etichetta di artista (che peraltro non viene più negata a nessuno, poiché sarebbe un’offesa al pensiero e un insulto alla società liberale) e sperimenta forme di comunicazione interattive in un’affannosa rincorsa al presente, che in un batter d’occhio diventa futuro.
Il virtuale ha già fatto il suo ingresso nell’arte contemporanea multidimensionale e multisensoriale, che non è più arredo come un quadro o una statua ma è ambiente, installazione, mondo nuovo, anche quando non è architettura.
In questo senso il titolo della Biennale,
Fare mondi, è azzeccato. Le opere ospitate sono fruibili con almeno tre dei cinque sensi: la vista (forse il più antico strumento), il tatto e l’udito (che con i video e le registrazioni ha una funzione non solo performativa ma anche dimostrativo-interpretativa). La prossima frontiera è l’olfatto (magari con una rivisitazione della
Merda d’artista) e poi, chissà quando, il gusto, che però incontra restrizioni di tipo sanitario, anche se una via indiretta, che dà l’impressione di assaporare l’arte, è stata sperimentata con le tazzine di caffè di Illy e con il Bar Caffetteria di
Tobias Rehberger al Palazzo delle Esposizioni della Biennale di quest’anno.
L’espansione dei modi di fruire l’arte è il trionfo della sua artificialità. Quanto più un’opera è ambiente, tanto più è artificiale, poiché pretende di sostituirsi alla realtà, e non si accontenta di imitarla o anche interpretarla e idealizzarla. E quanto più è artificio, tanto più è
entertainment. La Biennale, dotata di un suo intrinseco valore artistico per la sua funzione di accorpamento e assemblaggio delle diverse opere (molte delle quali non possono “vivere” se non nello specifico spazio a esse destinato), esalta l’aspetto dell’intrattenimento, grazie a cui il visitatore è esortato a toccare, percorrere labirinti, visitare tetre capanne con inquietanti robot, prendere cartoline da scatole di cartone e sfogliare giornali buttati per terra apparentemente a caso. In una parola, divertirsi. Tra visitatore e autore non c’è più distacco reverenziale, anzi: l’artista ha bisogno di ospitare il visitatore nel suo mondo interiore, creato apposta per esser frequentato.
La trasformazione dell’arte in questo senso è avvenuta con il Dadaismo. Il gusto per la provocazione nell’arte plastica è nato allora. Solo che ha perso il suo significato di elitaria contestazione per diventare parodia della realtà; parodia che, oltre l’apparenza, può rivelarsi serissima.
Se l’arte contemporanea è vittima di un pregiudizio negativo, è probabilmente perché non c’è più un autocontrollo delle idee, conformistico se si vuole, e rassicurante. La volontà di stupire è lo scarto dalla norma di un individuo che, per emergere nella competizione globale, dev’essere originale. Senza accorgersi che ora è questo il conformismo, e che nel mondo non ci sono mai stati tanti artisti e così pochi artisti famosi alle masse.
La Biennale è storicamente il registro di questo cambiamento. Va vista con occhio contemporaneo, cercando senza timore il divertimento, anche scherzandoci su, nello spirito della nuova comunicazione informale fra artista e visitatore. Il serioso e distaccato frequentatore di mostre a Venezia ha sbagliato luogo. A tutti gli altri, la Biennale può sembrare bella (e il Padiglione italiano di più).
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Ma se dobbiamo considerare la Biennale come l'ennesimo parco a tema, bisogna che qualcuno avvisi Disney!
Da allieva di Garroni vi dico che qundo si confonde "estetico" con "formale" come si fa qui, si è davvero toccato il fondo. Un'altra cosa: resta OBBLIGATORIO per l'arte avere a che fare, se non col bello, col vero; per cui, qualsiasi cosa non rispetti questa regola, non è arte. Non so cosa abbiano appioppato al pubblico alla Biennale di Venezia, ma sicuramente aveva più a che fare con la creatività pubblicitaria, a quanto si evince da questo e altri articoli: io lì non ci sono andata perché non ho tempo da perdere con queste prese in giro, francamente.