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La mia Biennale finisce qui. Torno a casa con la convinzione che le arti visive abbiano ancora qualcosa da dire. Pollice in su per la maggior parte delle cose viste, con qualche reticenza ed alcuni no secchi. Partiamo dai no: no al Sud Africa, che sembra voler stare con un piede ancora affossato nell’arte del passato ed uno vicino al presente. Troppa roba, quindi poco chiaro, raffazzonato.
No anche al Brasile, unico padiglione brutto nella zona laterale dei giardini. Peccato, perché li ogni spazio ha qualcosa di interessante da dire.
No anche Mozambico ed Indonesia, uniti ma molto disorganici e poco leggibili. No anche al padiglione dell’Israele. Peccato, dalla partecipazione di Michal Rovner di qualche anno fa non è più riuscito a reggere il confronto.
Per il resto mi sembra di partire con nella testa tante belle immagini, non sempre condivise anche da chi scrive su questo sito. Per esempio a me è piaciuto il padiglione tedesco, al primo approccio ostico, ma ad una seconda lettura molto efficace.
Molto interessante invece il padiglione dell’Uruguay, con il Lavoro di Marco Maggi, delicato poetico e leggero. Bello il lettone, l’islandese, il cipriota, l’olandese, il belga. Qualche dubbio sullo spagnolo e l’americano. Divertente ma inutile il francese.
Last but not least curiosa la scultura gonfiabile simbolo di fertilità intitolata God, interpretazione dell’attaccapanni icona di Gufram da parte di Toiletpaper, il progetto di Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari.
Per questa Biennale direi che è tutto, forse. Alla prossima (s.v.)