06 settembre 2001

Fino al 4.XI.2001 biennale_padiglione canadese Venezia, Giardini di Castello

 
Janet Cardiff e George Bures Miller si interrogano sulla percezione della realtà, invitando lo spettatore a "vivere" questo quesito nella straniante sala del Paradise Institute...

di

Come per il padiglione tedesco, anche qui c’è da attendere un po’ prima di entrare.
Una volta dentro i visitatori vengono invitati a disporsi lungo la parete e, divisi in due gruppi, vengono esortati ad entrare attraverso due porte (una per gruppo) di un apparente cinema.
Scelta velocemente la poltrona sulla quale accomodarsi, ogni visitatore ha a disposizione delle cuffie. Davanti a sé ha un balconcino oltre il quale tante piccole poltrone danno l’illusione della presenza di un piano inferiore.
Comincia la proiezione del film.
Le narrazioni sono varie.
Un edificio viene distrutto dalle fiamme; un artista canta in playback la versione di Marlene Dietrich di “Johnny”. Dopo un po’ si sente qualcuno molto vicino canticchiare la propria versione. Segue, in video, l’immagine di una camera d’ospedale nella quale, rimembrando i doppi sensi duchampiani, sono presenti un’infermiera ed un infermo: un uomo, apparentemente sano, immobilizzato al letto con varie cinghie.
Si sentono poi passeggiare spettatori invisibili tra le poltrone, li si sente masticare pop corn, o stupirsi di aver dimenticato il cellulare squillante acceso.
Si cominciano a sentire le voci dei personaggi del filmato parlare alle nostre spalle.
Ci si sente proiettati in una realtà altra, in una percezione nuova della sala cinematografica.
Usciti ci si interroga sulla percezione. Su quanto la realtà sia relativa ai nostri sensi e mai afferrabile oggettivamente come realtà assoluta. Più che da vedere, direi dunque “da vivere”.

Genny Capitelli



Venezia;
Giardini di Castello;
padiglione canadese.
Dal 10.VI.2001 al 04.XI.2001.
Apertura: da martedì a domenica dalle 10:00 alle 18:00;
sabato dalle 10:00 alle 22:00.
Commissario: Wayne Baerwaldt, della Plug In Gallery di Winnipeg.
In collaborazione con: Walter Phillips Gallery del Banff Arts Centre.
Catalogo prodotto dalla Bruce Mau Design Inc.


[exibart]

10 Commenti

  1. Si tratta di una riflessione sulle immagini in movimento condotta dal punto di vista della fruizione (dello spettatore)? Mi sembra anche di capire che gli artisti hanno fatto interagire immagini e sonoro: forse per accentuare la centralità dello spettatore stesso? Attualmente gli studi sul cinema sono orientati sulla “crucialità dello spettatore” (Casetti, “Dentro lo sguardo”): spettatore come anti-soggetto, interprete e giudice. Esperienze come queste sono dunque interessanti. Potresti descrivere in modo più particolareggiato il filmato?

  2. Caro Costantino,
    la risposta alla tua prima domanda è: certo.
    Alla seconda: sì.
    Alla terza: durante la proiezione la storia in se’perdeva importanza, mentre lo spettatore ne acquistava sempre di più (come hai intuito).
    Le immagini erano commentate continuamente da spettatori inesistenti che mangiavano pop corn alle spalle degli spettatori reali, che parlavano all’orecchio o facevano scricchiolare il pavimento. Nel frattempo l’infermiera importunava l’infermo che, liberato dalle cinghie da quest’ultima, preferiva restare sul lettino (il volto dell’infermo puoi vederlo nella foto).
    Le persone in sala aumentavano: si univano agli “irreali” anche i personaggi dello schermo che, se non ripresi, erano in mezzo al pubblico a parlare con voce intensa e grave.
    Il tutto in un breve lasso di tempo, per cui non posso dirti, ad esempio, chi ha appiccato il fuoco…

  3. ciao Genny,
    direi alla conclusione (come scontato) che la verità quindi è sempre in movimento. A tal proposito una domanda ( anche per voi altri che state legendo) che forma daresti al moto della verità?
    agiungo solo una domanda, che colori erano usati nei video? spiego meglio: filtri particolari (magari per ricordi…etc) o per le diverse inquadrature ( il cinema è in bianco e nero) se si ne sai il motivo?
    ciao

  4. La forma del moto della verità, per me, è quello della luce. Se ben ricordo, non ci sono stati attimi in bianco e nero. Ad inizio ottobre andrò a rivedere l’opera e ti farò sapere.

  5. Il cinema è in bianco e nero per scelta del regista affinchè susciti una determinata emozione nello spettatore. Emozione che, probabilmente, non sara’ effettivamente quella che il fruitore proverà.
    Se è in bianco e nero perchè datato, lo è semplicemente perchè non erano stati brevettati i mezzi tecnici per ottenere il colore.

  6. La risposta di Genny è giustissima. E’ molto interessante toccare questioni tecniche. I tentativi di realizzare film sonori e a colori sono in realtà molto precoci. In tutta sincerità, però, non sono in grado di fare un discorso esauriente, poichè solo in ambito statunitense si è iniziata una storia “tecnica” del cinema; e quindi anch’io sto studiando questi aspetti del cinema stesso da poco tempo. Mi sembra che già negli anni ’20 De Mille abbia realizzato un film a colori. I film a colori degli anni ’30 e ’40 si caratterizzano per una predominanza dei colori rosso e blu: sono colori forti, molto belli ed espressivi, a mio parere – ovviamente l’effetto che provocano non è realista: basti pensare, ad esempio, a “Via col vento”, che è il film più noto, o a “Sangue e arena” di R. Mamoulian o a “Femmina folle” di J. M. Stahl, entrambi del 1940. Col tempo la fotografia in bianco e nero viene perfezionata, e nei primi anni ’60 ci sono splendidi esempi in questo senso, come “Lo spaccone” di Rossen, “La ciociara” di De Sica, “Anatomia di un omicidio” di Preminger (che è anche in Scope). Come giustamente ha detto Genny, oggi il bianco e nero è usato per ottenere e comunicare effetti particolari: un bel film di questi anni in bianco e nero, secondo me, è “L’odio” di Mathieu Kassowitz.
    Un grazie a Genny per aver contribuito a sollevare una questione ancora poco studiata e considerata.

  7. Caro Costantino,
    mi fa molto piacere notare che la mia osservazione sia stata di tuo gradimento e vorrei cogliere l’occasione per invitare i lettori a vedere “L’odio”, che ritengo intenso ed interessante.

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