Le foto di Olga Chernysheva, che vive a lavora tra Mosca ed Amsterdam, raffigurano donne di spalle coperte di pellicce animali. La pelliccia, status symbol in declino presso la società occidentale a meno di non considerare i prodotti sintetici, rappresenta qui, per la società post-sovietica, il simbolo della resistenza di consuetudini radicate, dettate innanzitutto dalle condizioni climatiche. La pelliccia in Russia è una banalità, strumento per ripararsi dal freddo, nulla a che vedere con l’appartenenza ad una classe sociale superiore ma, al contrario, un abbigliamento che preserva un decoroso anonimato.
Le donne impellicciate della Chernysheva diventano così oggi veri animali di una città, Mosca, che è vista come una foresta urbanizzata. Con un approccio tra l’ironico ed il malinconico l’artista documenta il fiero senso di appartenenza alla propria comunità del popolo post-sovietico, non senza una vena di critica ai modelli di vita imposti dal capitalismo dilagante.
Di Leonid Sokov (n. 1941) si ammira l’installazione dal titolo “The shadows of the twentieth century sculptures” (Le ombre delle sculture del XX secolo), sorta di camera delle meraviglie nella quale sono riprodotti in scala le opere d’arte più significative ed i simboli del XX secolo. Sokov è artista storicizzato, già in campo negli anni ’70 e ’80 con il movimento concettualista Sots-art sul tema della ri-contestualizzazione dell’esperienza sovietica nella realtà post-moderna. La teca che presenta in Biennale diventa uno spettacolare reliquiario nel quale sono conservate le icone del secolo appena trascorso. Un motore elettrico e lenti di vetro permettono di proiettare le lunghe ombre degli oggetti sulle pareti della stanza. Tutto è artificiale, costruito: Sokov sollecita il visitatore ad interrogarsi sulle facili suggestioni ed illusioni imposte dall’industria culturale mondializzata. Decontestualizzati ed accomunati nella grande macchina dell’artista, gli oggetti divengono stucchevole esercizio mnemonico di associazione a nozioni scolastiche o a sterili luoghi comuni: l’opera d’arte non è più tale, è ora ombra di se stessa e ciascuno degli oggetti, dalla bottiglietta di Coca Cola alla torre di Tatlin, vengono omologati.
L’opera più spettacolare e suggestiva del padiglione russo ci è parsa però l’installazione di Sergei Shutov (n. 1955 Potsdam, Germania) dal titolo “Abacus”. Si tratta di una serie di figure genuflesse disposte regolarmente in una delle stanze del padiglione.
Scontata l’interpretazione (ma non sono le cose semplici le più geniali?): con tutto che siano spesso le medesime questioni spirituali ad essere in causa, le diverse religioni risultano quasi sempre antagoniste e spesso causa di tragedie per l’umanità. Shutov immagina una possibilità di riconciliazione partendo proprio dalla condivisione di sentimenti e bisogni comuni come la spiritualità. La spiritualità diventa lo strumento per annullare le differenze tra gli uomini e, in un’accezione più sottile, l’occasione per un ritorno dell’uomo alla propria interiorità.
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Uno dei padiglioni più eterogenei e dunque interessanti della manifestazione lagunare.
Sono rimasta colpita dall'opera di Shutov quando mi sono recata in visita alla Biennale.
Alla luce dei fatti più recenti, ritengo che tale opera traduca perfettamente il bisogno nell'uomo di spiritualità e, con essa, di unione fra i popoli.