Lo so che voi penserete che ciò che sto per scrivere è una baggianata, che non ha un senso logico, e tantomeno scientifico, ma secondo me l’arte è salvifica. Ci sono certi giorni, quando si è particolarmente cupi, tristi, quando si vede tutto nero, ecco in quei giorni improvvisamente l’arte ci viene in soccorso. Ci distrae, ci fa capire che c’è ancora del bello, ci strappa un sorriso. Mi era già successo qualche tempo fa quando andai a Napoli a trovare Gian Maria Tosatti e a vedere i suoi lavori. Una decisione presa all’improvviso, che inaspettatamente è accaduta nella giornata successiva all’attentato di Parigi. Me lo ricordo bene quel giorno, tutti sotto tono, con una tristezza in volto, eppure ricordo anche quanto fui grata a me stessa per essermi regalata quel viaggio a Napoli alla ricerca del bello, che mi aveva sollevata.
Stessa cosa è successa qualche giorno fa; mood triste, malinconia a palla, ed ecco di nuovo l’arte che arriva in soccorso. Gianluca Brogna mi invita a vedere la seconda edizione di una rassegna di performance che si tiene al teatro dell’orologio. Vado, perché le performance mi piacciono da sempre, ma ho la mente altrove, i pensieri sono distratti. Ed invece è da quando sono stata a vederle che lo ringrazio ogniqualvolta mi è possibile, perché mi sono piaciute molto, perché mi hanno distratto, ho sorriso, ed ho capito che Roma poi non è così morta, che ci sono artisti, quelli della generazione dei trentacinquenni, che hanno ancora molto da dire, che in silenzio lavorano, sodo, e si sanno esprimere. È da quella generazione che dobbiamo ripartire, se vogliamo ancora dire qualcosa in questa città. Le performance che vedo mi piacciono molto dicevo, intanto quella di John Cascone, che pensa un’operetta satirica con i principali termini utilizzati nei comunicati stampa dell’arte contemporanea. Tre giovani cantanti, tra l’altro a parer mio molto bravi, che cantano parole in libertà quali evocare politico riflessione territorio pittura. Un momento esilarante, una sana autocritica che tutti facciamo mentre loro cantano queste parole, probabilmente usate ed abusate da noi. Mi diverte la cosa, dobbiamo cominciare a non prenderci troppo sul serio. Molto interessante anche la performance di Mariana Ferratto, che di soppiatto e senza tanti clamori, fa girare una giovane donna nelle sale delle performance vestita ed atteggiata sempre in maniera diversa, folcloristica. Forse però c’era troppa gente per poter comprendere a pieno questo lavoro. Dissacratorio, divertente ma anche molto intimo il lavoro di Cesare Pietroiusti – ok lui non fa parte dei giovani trentacinquenni -, che possiamo considerare un pioniere della performance a Roma. In una delle sale del teatro da un lato con le cuffie canta canzoni di cui il pubblico non sente la musica che arriva solo alle sue orecchie. Melodie del passato, del passato comune, ma anche canzoni tristi, d’amore, ricordi della vita di Cesare. Bella ed intensa (intensa è una parola che io uso spesso, eppure Cascone non l’ha inserita!). C’è poi Elena Bellantoni, che mi stupisce ogni volta di più, superlativi i suoi lavori; si mette in gioco con tutto il corpo, usando la forza fisica come facevano le performer di una volta. Nel suo volto e nel suo corpo si legge la stanchezza, la consapevolezza di un lavoro duro, complesso ma empatico e risolto. Stesso entusiasmo per il lavoro di Silvia Giambrone, che mi è piaciuto perché corale e molto coinvolgente. Da dire sul lavoro di Filippo Riniolo ho poco, perché forse non l’ho capito!
Che bella serata, spero ce ne siano presto altre