Le tappe di questo cammino vanno dai primi lavori alle esposizioni alla Quadriennale (‘47, ‘51 e ‘57) e alla Biennale (‘48 e ‘50, ‘58); dall’adesione al MAC, negli anni ’50, all’ Exposition du Group Espace de Saint Cloud di Parigi, al periodo dei bricolages; dalle ricerche sugli oggetti e le realizzazioni in gomma e cuoio, ai riconoscimenti degli anni ’80, fino alla dedicazione di una sala Personale alla Biennale del ’93.
Parlare di Carol in maniera esaustiva è difficile perché la sua opera sfugge ad ogni tentativo di inquadramento all’interno di movimenti e correnti artistici. L’artista ha sì vissuto le passioni e le ideologie novecentesche da protagonista, ma con un atteggiamento “nomadico” (Crispolti), e cioè piegando, di volta in volta, le tecniche e il fare artistico delle correnti cui aderiva alla propria arte. In ciò si possono leggere, a seconda dei punti di vista, sia la levatura qualitativa di Carol, sia quella certa titubanza, da parte di alcuni critici, di inserire l’artista nella cerchia dei nomi di prim’ordine del secolo scorso.
In tempi più recenti Carol si rigenera di nuovo: il supporto non è più bianco ma è una carta tecnica sulla quale giacciono figure a metà tra i ricordi d’infanzia e figure umane stilizzate su modelli etnici, aztechi o maya. Non c’è contraddizione: entrambe appartengono ad una dimensione collettiva della memoria, manifestano un desiderio di raggiungere l’estrema sintesi della rappresentazione figurativa. E questo era anche il mito di Picasso.
Ho scoperto in Carol Rama le origini della transavanguardia.
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