Nuove pagine di un grande vecchio del panorama
contemporaneo. È
Germano Sartelli (Imola, Bologna, 1925), un “maestro” che ha percorso
tutte le tappe dell’arte dei nostri tempi, che ha amato la materia, la terra,
la polvere, i rifiuti. E accostato
Burri, le sue combustioni, le muffe del passato, le
sorprendenti ragnatele.
Quella che l’artista emiliano ha guardato è una natura che
non ha nulla dell’armonia e della sua bellezza originaria. Armonia che nasce,
invece, dall’utilizzo magico delle combustioni, dei rifiuti, dei ferri
arrugginiti. Sono quindici lavori quelli della nuova mostra bolognese, per
raccontare una storia nuova con la poetica di sempre. Opere nate, ancora, da
materiali poveri: è il linguaggio che non rinuncia alle materie semplici, per
dare origine a mondi, fissare pensieri.
Accoglie il visitatore un’esplosione di vetri: frammenti
di bottiglia verde sulla tela bianca. Essenza di ciò che è stato, composizione
che sa di effimero e regala bellezza.
Laddove un filo contorto di plastica
gialla interviene, invece, a evocare luce, a ricordare la potenzialità delle
cose, dell’esistenza. Poi, sulla carta stratificata, vi sono graffi,
scalfitture ripetute in modo quasi ossessivo. Una mano che solo apparentemente
si lascia andare.
Il gesto è invece preciso, controllato da grande
consapevolezza estetica. Sono ferite di “pennelli” meccanici, strumenti che lo
stesso artista trasforma per ottenere l’effetto desiderato.
Lo strato finale, quasi sempre di
carta assorbente, lascia intravedere altri strati, più scuri, fino a quello
nero. Altrove, spiragli di colore e parole, aloni di mistero che emergono
attraverso le raschiature. Quando brandelli di giornale raccoglievano, un
tempo, immagini e parole. Resta qualcosa di un foglio d’appunti, una nota per
ricordare. Sono tracce del quotidiano, memoria di qualcosa da buttare, a
rivivere nell’opera di questo artista, che non si piega alla fine delle cose.Un
artista che ha insegnato pittura all’ospedale psichiatrico di Imola. E l’arte
come terapia.
Nel 1964 è alla Biennale di Venezia con i
Ferri, materia nuda, espressiva. Le
opere di oggi, i segni, le espansioni graffiate e le ferite, sono lì a evocare
“
interminabili spazi e sovrumani silenzi”. Piccoli segni, un nuovo alfabeto per lasciare
traccia di sé. Siamo di fronte a uno spazialismo
sartelliano, e una x, nell’opera
con carta grigia, è un invito a fermarsi, una pausa nel cammino.
Dalla carta, talvolta, affiorano piccole forme, quadrati
riflessi nell’acqua o rettangoli un poco più grandi, finestre di grattacieli.
Poi, il fascino di una rete e messaggi di latta, il sorriso di una mezzaluna
che non osserviamo più. E una scultura, ancora di rete metallica, abitata da
brandelli ferrosi, dai bordi tagliati al laser. Farfalle, frammenti di
pensiero, nuovo soffio di vita, leggerezza di colori in libertà. Ritagli, che
catturano il significato, di ciò che stato e non è più. Tutto si crea, nulla si
distrugge.
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