Prese le distanze dalle algide atmosfere del Mare verticale, esposto in occasione della Biennale di Venezia 2005, alla Galleria Maggiore di Bologna Fabrizio Plessi (Reggio Emilia, 1940; vive a Venezia) ripropone, in una nuova forma, due opere degli anni ’80.
Sei ampi coni in ferro, già presentati in un’istallazione differente alla GAM bolognese nel 1987, sono allineati al centro della lunga sala principale della galleria, per l’occasione non illuminata. Sul fondo di ciascuno di essi si agitano acque blu videotrasmesse.
Nella saletta contigua sono schierati in diagonale tre “armadi”, strutture verticali in ferro a parallelepipedo che sono un elemento caratteristico della sintassi artistica di Plessi. Sopra ciascuno di essi è installata una delle lettere al neon che compongono la parola “ART”, ognuna in un colore diverso. Nel loro interno cavo e aperto è inserito un cavalletto da studio chiuso, nella parte bassa, e in quella superiore un televisore. Spento. Gli armadi si negano ad altro uso che essere da una parte contenitori di supporti per l’arte, dall’altra strumento di una dichiarazione tanto luminosa quanto ambigua.
Le due opere si fanno veicolo di molti dei temi base della poetica sviluppata da Plessi in questi anni, spogliata dei suoi elementi più scenografici e riportata a un’asciutta essenzialità. Il linguaggio artistico pare qui vivere di assenze e risonanze. Un’estetica che rimanda chiaramente al minimalismo si coniuga con l’uso di materiali poveri e l’incorporazione di schermi. Ma quelli che normalmente sono supporti di un discorso mediatico sono riportati alla funzione essenziale del mostrare o all’uso come mero materiale di produzione.
Minimal sono le forme degli oggetti che, simmetriche e levigate, rimandano a semplici elementi geometrici.
Le loro dimensioni, in diretta relazione con un visitatore che funge da unità misura e detta la scala umana. La qualità “teatrale” dell’installazione, che richiede l’intervento dell’osservatore (il quale si affacci sui pentoloni, valuti l’inservibilità degli armadi, faccia esperienza della suggestiva ambientazione) per potersi definire come situazione.
In questo senso le opere si offrono come presenza, il loro rapporto con lo spettatore non posto nei termini di una rappresentazione ma secondo una modalità esperienziale. Con il buio della galleria a contraddire l’idea di mostra come visione. Al visitatore non è richiesto un vedere, ma un essere presente di fronte alle opere. E se la rappresentazione è negata all’arte, anche le parole paiono risuonare a vuoto, nonostante la perspicuità dei neon, a ribadire che “art is art”.
Unito al carattere minimalista è poi un sotteso rifiuto della tecnologia: quello stesso medium che è il primo imputato di costruire narrative piuttosto che realtà è qui deputato a ritornare a un livello base della rappresentazione. I video installati sul fondo dei coni metallici trasmettono niente più che lo sciabordare di acque azzurre. I televisori inseriti negli armadi sono ridotti al silenzio, meri schermi che paiono piazzati lì a indicare la negazione della loro funzione.
La tecnologia, privata del suo potenziale di progresso e di scardinamento della nozioni accettate di realtà resta a restituire un brandello di natura, unica connessione con l’esterno in un’opera che pare evocare che l’arte è una questione tra opera a visitatore.
valentina ballardini
mostra visitata il 1 aprile 2006
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