L’immagine high-tech, figlia dell’era digitale, diventa sovrana nel regno della comunicazione visiva. Ma, a quanto pare, il buon vecchio scatto analogico è ancora in grado di costruire “mondi virtuali” attraverso l’intuizione di una visione originale.
Andrea Maioli (Bologna, 1959) porta avanti la sua attività di fotografo scattando tutto rigorosamente con procedimento meccanico, ricavandone solo ed esclusivamente diapositive, e come giornalista di professione si può dire un esperto di registrazione dal reale, di una cronaca obiettiva e inconfutabile, pur passata al vaglio della propria soggettività.
Le immagini esposte alla Galleria L’Ariete provengono perlopiù da soggiorni all’estero, ma il loro essere frammenti di mondi lontani non è preso in considerazione nell’intento dello scatto, poiché la specificità di luogo non è importante ai fini della riuscita estetica. La realtà impressa sulla pellicola sembra provenire da uno sguardo più interiore, da una natura più mentale che fisica. C
ome se gli obiettivi telescopici che l’autore spesso utilizza potessero penetrare nella pelle delle cose.
Le visioni epidermiche del mondo nuovo di Maioli sono realizzate focalizzando una parte per perdere di vista il tutto, e risultano particolarmente spiazzanti quando protagoniste sono le presenze immateriali dei giochi di riflessi.
La luce diventa spesso protagonista, bloccata nella fugacità dell’attimo e nel conflitto con la concretezza di superfici architettoniche, addirittura amplificato da una retroilluminazione che ricrea il set in
Frammenti di memoria. Perché il riverbero luminoso destabilizza la familiarità delle forme degli oggetti, frantumando le certezze: ci si perde nel riconoscere ciò ch’è noto e, non riuscendo, si rimane stupiti dall’imprevedibilità o improbabilità del reale che il fotografo è riuscito a cogliere.
Se gli elementi architettonici vengono come vivificati e deprivati della loro artificialità – come nel caso della suggestiva inferriata che, nel gettare la sua ombra sulla superficie del muro, sembra trasformare le sue sembianze in quelle di un ragno dalle lunghe zampe – anche le forme naturali subiscono un surplus di forza espressiva. I rami d’alberi che ricorrono negli scatti rivelano nuovamente quel processo di metamorfosi del reale che asseconda la volontà comunicativa del loro autore.
Una sorta di animalizzazione dell’inanimato è ribadita e comprovata persino dal significativo
Spider. Che, a dispetto di quello che si può intuire, si riferisce proprio a un intrico arboreo: decontestualizzato dalla struttura d’insieme, sembra assomigliare all’insetto che ne determina il titolo.
Visualizza commenti
La ricerca di Maioli è interessante anche perchè non si fossilizza sulla iconicità o su una riconoscibilità forzata della sua opera. Non cerca la serialità ma la libertà. E questo coraggio-incoscienza è sempre più raro in un artista contemporaneo, come rara è l'umiltà di sottrarsi al ruolo di 'personaggio pubblico', per essere giudicato esclusivamente in base alla sua 'ricerca privata'.
Peccato per la mancanza di un degno catalogo...