È più difficile a farsi che a dirsi e, nel tempo, lo hanno
dimostrato gli innumerevoli tentativi messi in campo da numerose generazioni di
artisti. Di che si tratta? Del proverbiale e quanto mai attuale (visto che il
centenario tarda a concludersi) “
far vivere lo spettatore al centro del
quadro”.
Non si dica che
Marco Rambaldi (Bologna, 1969) non c’è riuscito;
anzi, a dimostrazione dell’avvenuto “miracolo”, alcuni dei convenuti alle prime
tappe di questo possibilmente infinito progetto si possono rivedere fotografati
nelle opere esposte. La storia è iniziata alla Room Arte Contemporanea di
Milano, dove le fotografie riproducevano mimeticamente i muri che le ospitavano,
ed è continuata a Bologna, aprendosi al primo “strato” di curiosi immortalati.
Nel dettaglio, l’artista si è fatto da parte per far
posto in prima istanza allo spazio espositivo, assumendo come soggetto dei
propri scatti la parete nuda (la serie
Wall), e in un secondo tempo al
fruitore (la serie
Opening), impegnato a osservare la parete stessa. È un farsi da
parte già storicizzato dall’arte del Novecento, che è andato di pari passo con la
presa di coscienza dei caratteri del fotografico. L’operazione, infatti,
sarebbe inconcepibile senza l’utilizzo “estremo” dell’automatismo di una
macchina fotografica, garantito nel caso specifico dall’autoscatto
temporizzato.
Ecco svelato l’arcano. Come fa lo spettatore a diventare
soggetto dell’inquadratura senza perdere la natura di osservatore? Seguendo,
come dice il saggio, un percorso erroneo: guarda il dito e non la Luna. O
meglio, ritrovandosi a osservare le stampe di anteriori incursioni allestite
alle pareti, viene colto a sua volta da uno scatto che lo inquadra proprio di
fronte ai precedenti “malcapitati”. L’oggetto capace di compiere tale
sbalorditiva operazione – la macchina fotografica – nel frattempo fa bella
mostra di sé, appropriandosi della ribalta con fare scultoreo, sfruttando il
cavalletto come piedistallo.
“
Non c’è più un senso ‘altro’ da ricercare, l’opera non
parla di niente e non si riferisce a niente se non a se stessa. Si riproduce
incessantemente come preda del delirio autoreferenziale di un meccanismo fuori
controllo”, si
legge nel testo che accompagna la mostra. E così la fotografia diventa (o è sempre
stata?) specchio della realtà, moltiplicandosi senza tregua, come in un gioco
di riflessi.
Da notare, però, che al contrario di quanto si possa
credere, questa autogerminazione invece che deprivare il processo di senso incrementa
a ogni passaggio la sua valenza concettuale.