Volendo riprendere un discorso e una pratica che coniughino arte e politica, ampliando lo sguardo su altri territori come filosofia, sociologia, urbanistica, si rischia d’incappare in colossali cantonate. Perciò, la mostra di Marinella Paderni e Marco Senaldi merita un plauso ancora maggiore. Sin dal catalogo, in realtà soprattutto una raccolta di saggi aggiornati e stimolanti. Basti pensare che, fra gli altri, è parzialmente tradotto anche un recente articolo di Mike Davis, esponente del cosiddetto “urbanismo radicale”. Ma, come recitava una celeberrima pellicola, non si tratta solo di “chiacchiere e distintivo”. Perché c’è spazio per capire, proporre, progettare.
Suburbia che vanno fotografate in senso letterale e metaforico, ma anche compartecipate, vivificate. Sicuramente non “recuperate”, nella peggiore accezione demagogica di tante amministrazioni comunali. A giusto titolo perciò la co-curatrice parla di “agire periferico” plurale. In questo senso, anche concetti come “utopia” vanno sovvertiti, ri-semantizzati, de-centralizzati, privati della retorica modernista, frammentati, resi a-sistematici. Un lavoro che, per parte sua, Senaldi porta avanti da tempo, e vanno citati almeno il libro Enjoy! e la collettiva Cover Theory.
Recependo l’obiettivo della rassegna, gli artisti invitati hanno espresso con grande intelligenza il proprio punto di vista, senza mai scadere nel banale. Se si volesse cercare un fil rouge fra le opere, forse si potrebbe rintracciare quello dell’“implosione pirotecnica” delle periferie, come ha scirtto Paul Virilio e ha ricordato la recensione della mostra pubblicata su “il manifesto”. Un fenomeno rappresentato nel suo stato patente o latente, furioso o sornione. Ma comunque inquietante, ulteriore sprono all’agire. Come promette di fare per esempio Natacha Anderes, che realizza quadri in plastilina dei cantieri urbani, assicurando all’acquirente di adattarli al reale. O come ha fatto Andrea Contin nella performance il giorno della vernice, sostanziata in un’installazione e in un video dal titolo I facchini sono sempre innamorati (2004). L’artista ha occupato la sala delle colonne del Chiostro di San Domenico con un ammasso di mobili, invitando a riflettere sul concetto di nomadismo, come d’altronde fa, in maniera ben più pacata ma non meno interessante, il lirico Flavio Favelli.
All’azione può sostituirsi l’osservazione, l’indagine, preludio a ogni intervento efficace.
Così Paola Dallavalle e Fulvio Guerrieri fotografano ville che ricordano le ambientazioni dei racconti dell’americana A.H. Homes; oppure la straordinaria Paola Di Bello raccoglie decine di scatti ottenuti dal cavalcavia milanese di via Monte Ceneri, allestendo poi un panoramico semicerchio.
Le altre due location della mostra -l’Officina delle Arti e la Fondazione nazionale della danza- ospitano un minor numero di opere ma meritano senz’altro una visita. Nel primo caso si tratta di uno spazio recentemente trasformato in luogo espositivo e residence per artisti, dove si possono ammirare, fra gli altri, Corviale Network, video necessariamente incompiuto dell’Osservatorio Nomade/Stalker, e Gold Experience n. 1 (2004) di Paolo Gonzato, una telaio di bicicletta “rubata” ricoperta da foglie d’oro a 18 carati. Nel sencondo caso, l’ampio locale post-industriale è di grande impatto visivo e, oltre a un altro lavoro di Gonzato, è allestito il video Odessa-World (2003), col quale Armin Linke ha partecipato a un progetto di Matteo Fraterno.
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marco enrico giacomelli
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