Dopo una prima mostra organizzata nella primavera del 2006, la Galleria Marabini ripropone nei suoi spazi i lavori della fotografa tedesca Candida Höfer (Eberswalde, 1944; vive a Colonia). Nella mostra inaugurata nel marzo di un anno fa erano esposte fotografie di interni di musei, biblioteche e altri luoghi pubblici di varie città europee, scattate tra il 1981 e il 2004. In quell’occasione, Höfer ha avuto modo di andare alla ricerca dei luoghi oggetto della sua attenzione nel capoluogo emiliano e di applicare il suo punto di vista su edifici dell’università quali il museo e la biblioteca di Palazzo Poggi, la biblioteca e la sala anatomica dell’Archiginnasio, il Teatro Comunale e il teatrino di Villa Mazzacorati. Le fotografie realizzate nell’ambito di quel progetto sono esposte in parte nella galleria bolognese e in parte al Centro arti visive Pescheria di Pesaro.
Höfer ripropone qui il suo sguardo da entomologa su spazi che vivono dell’uso che ne viene fatto, luoghi che per loro natura servono per sedersi, osservare, consultare, ricercare, studiare. Li fotografa, come sempre fa, vuoti, privati della presenza umana che dà un senso al loro rigore e alla ripetitività dei loro arredi e delle loro forme. Ponendosi quasi sempre frontalmente rispetto agli oggetti della sua osservazione e perpendicolarmente a corsie e corridoi, applica a interni adibiti a uso culturale lo stesso sguardo serializzante che i suoi maestri
Bernd e Hilla Becker fermavano su silos e architetture industriali. E che altri fotografi della cosiddetta Scuola di Düsseldorf, come
Thomas Struth e
Thomas Ruff, hanno posato su volti, musei densi di pubblico e oggetti quotidiani.
Le fotografie di grandi dimensioni sono appese a pochi centimetri dal suolo, entrando così in dialogo diretto con il corpo del guardante, che proiettano all’interno degli spazi rappresentati.
Höfer applica uno sguardo oggettivante sui luoghi e immobilizza in una luce naturale, a volte spietata, le corsie che separano le scaffalature di libri, i corridoi, le cassettiere degli archivi delle biblioteche. E ci restituisce, affiancando immagini le quali non si discostano, a un primo sguardo, che per pochi particolari, un senso di sgomento e sopraffazione. E il suo lavoro dice sulla fotografia almeno tanto, e forse più, quanto sui luoghi e il loro uso.
Quella di Candida Höfer è una fotografia che si fa sguardo assoluto e il disagio che le sue immagini comunicano è in parte quello di scoprire che la figura umana, di cui si avverte grave la presenza (a monte del lavoro di catalogazione evocato dai minuscoli cassettini delle schede dei volumi; negli scaffali su scaffali di volumi scritti, stampati, ordinati, consultati; negli stemmi araldici allineati alle pareti), è scomparsa non solo dallo spazio di fronte all’obbiettivo, ma anche da dietro di esso. E che l’ordine raggelante è non solo questione di contenuto, ma anche di una visione talmente esatta da apparire inumana e al contempo così disciplinata e greve da risultare opprimente.