“Un sintomo significativo della necessità della poesia concreta si riscontra osservando che simili e analoghe forme sono emerse quasi contemporaneamente in Europa e in America latina e che una analoga forma mentis ha trovato il suo terreno in entrambi gli ambienti. Sono perciò convinto che la poesia concreta comincia a realizzare l’idea di una poesia universale comune. È forse comunque tempo di rivedere profondamente la concezione, il modo di credere nella poesia e di riesaminare la condizione di una sua funzione nella società moderna”. Così scriveva lo svizzero
Eugen Gomringer che, assieme ai fratelli
De Campos e
Decio Pignatari in Brasile,
Gerhard Rühm e
Friedrich Achleitner in Austria e
Franz Mohn in Germania, inizia nella prima metà degli anni ‘50 a lavorare con l’aspetto visivo delle parole.
Ricostruendo un percorso storico dettagliato -ben 90 opere dagli anni ‘60 alle ultime ricerche- il Magi riunisce celebri autori italiani e stranieri che hanno coniugato la parola con l’immagine, diventando i protagonisti di un’importante stagione artistica.
Stagione cominciata col
Manifesto della Poesia Concreta del gruppo brasiliano
Noigrandes, che considerava la parola non più come “veicolo” bensì come “espressione” di senso. Una rivoluzione che si riallaccia a
Un coup de dés di Mallarmé, testo che -come ha scritto Vincenzo Accame-
“ha fatto letteralmente il vuoto davanti a sé”, alle
tavole parolibere futuriste degli anni ’20, ai dadaisti e ai lettristi. La parola in quanto tale, fine a sé stessa. Negli anni ’60-’70, con la “poesia visiva” (espressione coniata da
Eugenio Miccini) il discorso si fa prettamente politico, divenendo una tagliente critica alla massificazione culturale operata dai media. Una poesia rivoluzionaria, perché utilizza i linguaggi della comunicazione di massa, arrivando a operare fin dentro la parola, smontandola e ricomponendola. Liberando le parole dal peso dell’etimologia e della sintassi, come negli
Zeroglifici di
Adriano Spatola, uno degli artisti che meglio rappresentano l’esplorazione delle possibilità di usare i frammenti di caratteri con sovrapposizioni verbali.
Gli esempi sono numerosi e i protagonisti in mostra sono quasi tutti presenti, insieme alle loro invenzioni. A partire dallo strutturalismo cerebrale del
Gruppo ’63, rappresentato dalla poesia da masticare di
Lamberto Pignotti -uno degli iniziatori, insieme a
Ugo Carrega– che, in seguito a Miccini,
Luciano Ori e
Lucia Marcucci, metterà in piedi il
Gruppo ’70, al quale collaborerà anche
Giuseppe Chiari. Non mancano gli esponenti del
Gruppo Logomotives, fondato dallo stesso Miccini nel 1983 con
Sarenco,
Franco Verdi,
Paul De Vree, Jean-François Bory, Alain Arias Misson e
Julien Blaine.
La tecnica più utilizzata è il collage, soprattutto su carta, che unisce ritagli di giornale a citazioni di scritti e fotografie, mescolando elementi ideografici con contributi iconici, l’ironia dei testi a fatti quotidiani. Anche la tecnica mista, acrilico e olio, e l’utilizzo di materiali come il legno o il plexiglas contribuiscono a dare spessore materico al lavoro.
La mostra si conclude con i nostri anni, con le
parole stracciate (2004) di
Arrigo Lora-Totino. Segno che l’energia sommersa dei sensi uniti alle parole ha ancora qualcosa da dire.
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una mostra sbagliata... che mischia autori di periodi diversi senza spiegare nulla
che espone opere molto tarde di artisti che nel tempo non hanno fatto altro che ripetersi
che si prefigge di spiegare il rapporto tra parola e immagine e non riesce a parlare neanche di se stessa
che "ruba" il tema ad una serie di iniziative, ben più interessanti, ma non aggiunge nulla all'argomento
che non attira il semplice visitatore per la pochezza dell'allestimento
che delude lo studioso per la miseria di basi scientifiche
e quanto spazio sprecato in tutto il museo!