Nella stanza câera poca roba, lo stretto necessario per vivere e lavorare. Una specie di disordine metodico definiva lo spazio, pochi metri quadri di caos e disciplina, tra angoli nudi, cumuli dâoggetti e polverosa quiete. Una brandina, un vecchio scrittorio, un tavolo da disegno, una libreria, un cavalletto e poi lunghe file di utensili sopra gli scaffali. Vasi, bottiglie, caraffe, recipienti riverniciati: gli stessi che, via via, avrebbero trovato posto sulla consolle a tre piani apparecchiata con cura prima di ogni nuovo quadro.
Le giornate di
Giorgio Morandi (Bologna, 1890-1964) si svolgevano entro il perimetro di quellâatelier, illuminato da unâunica finestra che dava su un cortile di via Fondazza, nel centro di Bologna. A raccontare quel posto sono stati in molti, attraverso immagini o parole. Tra questi
Jean-Michel Folon, che in una serie dâintense fotografie fissò lâemozione della sua prima visita allo studio. CosĂŹ scriveva, sul filo dei ricordi: â
Tutte le pitture, tutti i colori, tutti i fiori sembravano risvegliarsi. Una penombra infinitamente nostalgica era appena scomparsa. Un luogo di creazione ci apparivaâ. Quel giorno dâinverno del 1979, Folon immaginò di aver rubato un poâ di luce a Morandi: â
Quella luce non mi appartiene. Ă la sua. E io dovevo restituirglielaâ.
La strepitosa antologica organizzata dal Mambo di Bologna prova a fare qualcosa di simile: costruendo, grazie alla cura di Renato Miracco e Maria Cristina Bandera, un percorso ragionato attraverso le tappe piĂš importanti della carriera del maestro, la mostra immerge lo spettatore in quella stessa, inafferrabile dimensione luminosa. Terrena e spirituale, concreta e insieme lirica, è una luce che talvolta esclude lâombra â quasi che i soggetti fossero pure presenze ideali -, tal altra la distende appena, conferendo forza strutturale ai chiaroscuri.
I grigi, i verdi tenui, i bianchi lattiginosi, i rosa cipria, i sabbia tiepidi, i cerulei: le tinte sono intrise di un fulgore impalpabile, che vivifica le umili cose ritratte, collocandole al contempo in unâaura sospesa. Immobili, scolpiti nella pasta atmosferica del colore, gli oggetti qualunque di Morandi escludono il gioco della narrazione, la banalitĂ del âcarattereâ, lâequivoco della cronaca. Nobilissimi, quasi ieratici, riposano nel solco intimo e breve di uno spazio-tempo quotidiano: spazio proiettato sulla superficie immateriale dellâidea, tempo mediato da un sentire universale.
Lâefficace allestimento raggruppa oli, acquerelli, disegni e acqueforti in cinque sezioni tematiche, sviluppate lungo un asse cronologico. Si susseguono cosĂŹ decine di nature morte, un paio di ritratti, alcune vedute agresti. Si tratta di vere e proprie
architetture, un catalogo di strutture rigorose ed effimere con cui inseguire solidi equilibri. Ă sempre la stessa scena, o quasi: bottiglie come obelischi, vasi di fiori come frammenti di corpo, paesaggi come porzioni di mondo. FrontalitĂ del soggetto, reiterazione del tema, minime differenze costruttive da cui derivano radicali interpretazioni dello spazio.
Lâarte sublime di Morandi, che tanto deve alla lezione di
CÊzanne, è tutta in questa continuità meditata, contemplativa, votata a una compenetrazione commossa col reale. Una pittura straordinariamente moderna, raccolta nel silenzio di un irripetibile altrove.