Precarietà esistenziale e fuggevolezza: sono queste le pesanti metafore che l’artista siciliano intende far affiorare dalle sue tre opere in mostra. Si tratta delle ultime installazioni del concettuale
Giovanni Termini (Assoro, Enna, 1972; vive a Pesaro), che in modo paradossale invitano alla sosta, alla riflessione. L’abilità artistica richiesta per la loro realizzazione passa in assoluto in secondo grado, così come la materia utilizzata perde il suo significato funzionale, divenendo semplice veicolo attraverso il quale l’artista intende trasmettere l’idea.
Nella prima sala, l’osservatore s’imbatte in fotografie di container. Non è dato sapere dove questi moduli bianchi di metallo si trovino precisamente. Le immagini sono evanescenti, quasi spettrali, la presenza umana è assente, malgrado Termini intenda rappresentare abitazioni. Una fitta nebbia avvolge le strutture, aumentando in chi le osserva uno stato di
Attesa di una spiegazione. All’osservatore il compito di trovarla.
Con l’installazione posizionata nella seconda sala, che porta il titolo
Divaga ma non troppo, Termini crea una struttura metallica composta di tubi, all’interno della quale sono montate due casse che tanto ricordano due bare, l’una in legno e l’altra in vetro opaco. Sono contenitori, oggetti ancora una volta atti a contenere qualcosa; il loro essere sospesi non li fa assomigliare ad altro che a sepolcri di un mausoleo. Al visitatore è data la possibilità di intervenire sulla cassa in legno imbragata da potenti funi, ma si suppone che nessuno si cimenterà mai nell’impresa, forse per la posizione precaria che si sarebbe costretti ad assumere, forse perché si teme quasi di sconsacrare un oggetto simbolo di pace e riposo eterno.
La terza scultura,
Passato, presente e futuro, mette in mostra tre rotoli in marmo, simili a “
tre rotoli di carta Scottex”, come li definisce lo stesso artista, quasi rocchetti di lana che si srotolano lentamente allo scorrere di una clessidra. I rotoli sono in tre marmi diversi, l’uno bianco, l’altro grigio e il terzo nero, a simboleggiare appunto i diversi tempi della vita dell’uomo. Sembrano, ancora una volta, elementi funerei, lapidi erette a ricordo di ciò che è destinato a scomparire.
Così come la sua opera che mostrava un intero libro con pagine di piombo, metafora concreta del “peso della cultura”, Termini utilizza ancora una materia pesante (il marmo, il legno) e procede andando al di là dell’apparenza dei suoi prodotti, in un comportamento di chiara opposizione nei confronti del sistema arte. Libera le sue opere da qualsiasi orpello che può legarle al mondo della produzione e al potere, e si pone alla ricerca dell’essenza. Chi desidera può seguirlo in quest’ardua impresa.