Uno sguardo-ricognizione sulla giovane fotografia inglese, per scoprire quello che sta succedendo a livello internazionale. La prestigiosa scuola post-laurea Royal College of Art di Londra ha aperto le porte a un curatore italiano in veste di ricercatore per un anno, Filippo Maggia, per mostrare il grado di eccellenza raggiunto da alcuni giovani diplomati del Master in Fotografia.
Dai diciotto selezionati emerge un quadro sicuramente inedito (e spiace vedere come i fotografi italiani purtroppo non siano contemplati) della strada che sta prendendo la ricerca fotografica emergente non solo britannica, poiché gli artisti provengono dalle più varie parti del mondo, dal Ghana al Portogallo. E se non si può parlare di una vera e propria corrente, poiché l’eterogeneità delle proposte è evidente, un filo rosso lega sicuramente gli artisti, un certo carattere narrativo e intimista che supera il semplice reportage. I giovani “inglesi” mettono a nudo, attraverso il mezzo fotografico, i loro incubi inconsci e le loro paure, le costrizioni sociali e la fragilità dell’essere umano.
Per quanto riguarda l’indagine sui luoghi, alcuni esempi sono
Becky Beasley, che si muove tra scultura e fotografia con un linguaggio onirico e surrealista che genera volutamente ansietà,
e
Bianca Brunner, che allo stesso modo s’interroga su come la rappresentazione fotografica possa non essere attendibile costruendo scenari immaginari e artefatti.
Sarah Pickering mette in scena tragedie e calamità come veri e propri incendi, in bilico tra reale e illusorio, mentre
Sophy Rickett ci porta alla scoperta del fascino del palcoscenico e del dietro le quinte di un grande teatro vuoto. Interessante il gioco concettuale di
Suzanne Mooney, dove la macchina digitale sospesa e inserita nella fotografia riporta alla costruzione dell’immagine, mentre i video di
Kirk Palmer parlano di luoghi esperiti riportandone l’atmosfera e il passato antropologico.
L’umanità è invece indagata, per citare alcuni esempi, da
Lisa Castagner, che con pose glamour racconta momenti quotidiani portati all’esasperazione; da
Lucy Levene, che affronta in prima persona il tema della pressione culturale ebraica e dei matrimoni prestabiliti; da
Danny Treacy, che in
Them -dove “loro” siamo noi- indossa costumi che si animano in un circo di perversione; da
Melissa Moore, infine, che plasma il proprio corpo in modo simbolico tra suggestioni paranormali autoindotte, e da
Annabel Elgar, che colloca figure in determinati ambienti focalizzandosi su piccoli dettagli che raccontano la vulnerabilità umana.
E se
Simon Cunningham punta alla percezione di un’instabilità e di un sogno a occhi aperti, struggente è il cantico d’amore in dissolvenza di
Gareth McConnell, che chiude malinconicamente il percorso di mostra, intenso mentre afferma con le immagini che “
l’istante è tutto” ciò che abbiamo o possiamo avere
nel nostro mondo.