Ventinove gli artisti provenienti da diciotto paesi, dalla
Russia alla Polonia, dalla Repubblica Ceca alla Serbia: la Fondazione
Fotografia si arricchisce così di altre 150 foto, film e videoinstallazioni.
Storia
memoria identità non è infatti solo una ricca esposizione, ma un ulteriore nucleo di una
collezione che si amplia, a comprendere le espressioni più rappresentative di
artisti nazionali e internazionali, affermati ed emergenti.
Poche sono le occasioni – come questa – che riescono a
centrare una riflessione per immagini sulla storia, sui suoi effetti e le sue
conseguenze, nonché sulla realtà attuale, spesso cruda e difficile, dove
emergono situazioni problematiche che di rado sono percepite dalle società
occidentali.
Zone geograficamente vicine, ma che trasudano luoghi e
atmosfere lontani, mentre le fotografie e i video si connotano d’una profondità
che pare trarre energie dalla solitudine di comunità costrette ad affrontare un
passato drammatico. Il tutto con ironia e senso estetico, che talvolta
contrastano con i contenuti e rendono grande godimento alla visita.
Il rapporto fra il “nostro” mondo e l’Est Europa si
arricchisce anche attraverso il confronto tra le generazioni degli artisti: dal
geniale ed esilarante progetto
U.F.O. (
Universal Futurogical Operations) di
Július Koller, che “presta” anche la copertina
al catalogo, alle surreali fotografie di un campo di concentramento ricostruito
con i Lego da
Zbigniew Libera, fino alle rappresentazioni sonore e per immagini del
giovanissimo
Gintaras Didziapetris.
Non mancano le letture dei simboli dei poteri succedutisi
nei paesi dell’Est nel corso del secolo scorso. E allora ecco i fotomontaggi di
Iosif Király,
le sequenze “prima-dopo” delle icone di Tito fotografate da
Mladen
Stilinovic, la
ricerca di
Swetlana Heger dei resti della statua di Stalin a Berlino, oggi
trasformata in innocui animaletti bronzei.
È però nelle videoinstallazioni che emerge con crudezza e
realismo una critica sociale che mette in discussione gli effetti della storia
e pone all’attenzione il problema dell’identità dei popoli, come nel caso di
How
do you want to be governed di
Maya Bajevic e di
Great Expectations di
Renata Poljak. Autori “
consapevoli fino in
fondo del ruolo fondamentale che l’artista oggi ha nel partecipare attraverso
il proprio vissuto alla determinazione di una nuova identità nazionale
collettiva difficile da scolpire”,
scrive Filippo Maggia, “
guardando sì al futuro ma senza cancellare
il passato”.
Se in alcuni casi, come nelle indagini sui popoli russi di
Anastasia Khoroshilova, è rintracciabile l’ormai classico riferimento a
Marina Abramovic,
il percorso della mostra disvela linguaggi originali, spesso ricchi di fascino
e comunque sempre impregnati di contenuti profondi. Contenuti che gli artisti
dell’Occidente europeo sembrano spesso dimenticare.