Il Museo della Scienza e della Tecnica di
Calatrava a Valencia, la Walt Disney Concert Hall di
Frank Gehry a Los Angeles, la Foundation Cartier di
Jean Nouvel, il Pantheon del neoclassico
Soufflot e la Biblioteca Nazionale di Francia di
Dominique Perrault a Parigi. Sono i cinque edifici scelti da
Lorenza Lucchi Basili (Pescara, 1964; vive a Padova) per divenire immagini astratte in una decina di stampe fotografiche di grande formato.
L’architettura d’insieme si perde nel dettaglio, si decompone a favore delle linee, delle superfici specchianti, delle trasparenze. Scorci e blow up ripresi dalla strada, in esterno, rivelano la posizione della fotografa. Le inquadrature sono oblique, sbilanciano la composizione degli scatti per esaltarne l’astrazione e focalizzare l’attenzione di chi osserva sui moduli costitutivi, le texture geometriche dei materiali di rivestimento, la ripetizione e il ritmo scansito dagli elementi strutturali.
“Ritratti” di edifici simbolo – per scelta o per accadimento – delle città a cui appartengono, ma anche di tipologie architettoniche della contemporaneità: le curvature di Gehry, le trasparenze di Nouvel, gli esoscheletri di Calatrava, la linearità delle strutture di Perrault. “Ritratti” che, suggeriti dall’estetica della forma, registrano il movimento di uno sguardo sullo stato delle cose, divenendo tramite fra passato e futuro, testimonianza soggettiva e frammentaria di quello che Roland Barthes definì in
La camera chiara “
un’emanazone del ‘reale passato’”.
Lo stesso processo di astrazione dell’immagine caratterizza la serie di tele presentate da
Manuela Sedmach (Trieste, 1953). Attiva dagli anni ’80, l’artista espone nuovamente nello spazio dello Studio G7 dopo tredici anni dalla sua prima personale. Il titolo della mostra fa riferimento alla dimensione soggettiva da cui prende avvio la sua produzione, sottolineando lo stato emotivo da cui essa trova, allo stesso tempo, inizio e termine.
Nebbia e vapore annullano prospettiva e profondità, cancellano la linea dell’orizzonte, fermando lo sguardo di chi osserva alla trama della tela. Il nero, utilizzato come base per ogni dipinto, si confonde con la terra di Siena e il bianco attraverso la meticolosa sovrapposizione di velature sottili. Gli elementi naturali che sembrano popolare le tele (come l’acqua, il cielo, la terra o la sabbia) diventano indistinguibili, assumono le sembianze di paesaggi onirici, di sfocate dimensioni parallele.
Forme e bagliori si riferiscono quindi solo vagamente a elementi della realtà, concedendo ampio margine alla fantasia di chi guarda. Il lento processo di generazione delle opere non traspare; anzi, sembra dar vita a eterni non finiti, la cui serialità si manifesta in sottili variazioni dello stesso tema o della stessa suggestione.
Per definire il suo operare, Manuela Sedmach fa riferimento a uno dei maggiori registi del nostro secolo,
Andrej Tarkovskij, e al suo film più noto,
Stalker: tramite verso la rivelazione di visioni e universi lontani, l’artista è una guida che non potrà mai raggiungere le mete che indica e godere di ciò che può solamente mostrare agli altri.