Dolore e gioia s’intrecciano giocosamente, lasciando trasparire un certo sentore di decadenza nell’opera di
Arnold Mario Dall’O (Bolzano, 1960), che negli antichi e difficili spazi della galleria Artsinergy utilizza elementi del vissuto quotidiano per definire il suo mondo mai troppo illusorio e mai troppo concreto. Quel mondo che la gente vuole, che rimane alla portata di tutti, poiché tutto quello che l’artista utilizza per creare i suoi lavori in realtà esiste già. Un universo che parla della guerra e del potere, ma in modo sottile e senza forzature, con una dose sempre sicura d’ironia.
Dall’O propone come esercizio stilistico un modo di vedere l’attualità attraverso una cifra artistica simbolica che parte dalle radici cristiane dell’umanità e arriva fino all’iconografia popolare. E non a caso in quest’esposizione eterogenea, che inizia dal quadro per arrivare alla scultura, ritornano elementi ricorrenti, tipici di tutto il suo lavoro precedente, come le corna di cervo – segno cristologico di potere – e gli animali, quasi a voler raccogliere in una summa i concetti base di una poetica che va avanti nel tempo, per chiudere il cerchio di una modalità di pensiero.
Un luogo popolato da stranezze è quello che descrive Dall’O, che riesce a dare a un paio di corna un’aura sacrale e dove la spiritualità non è mai tale, ma assume significati reconditi e ulteriormente intriganti. Una situazione esistenziale che piace per il semplice fatto di aver acquisito potere ai nostri occhi. Un inferno semantico – dove i condannati siamo noi – che l’artista prova a sistemare, anche se a modo suo, in un certo senso a catalogare, accumulando immagini e visioni, per capire se stesso e gli altri.
Partendo dalle scatole accatastate in posizione provvisoria di saponette
Sole rivestite d’argento, una marca storica usata dalla nonna e dalla zia e per questo dal sapore proustiano, un semplice e caro ricordo di famiglia e nello stesso tempo strumento commerciale e simbolo divino di prosperità. Per arrivare a uno spazzolone d’argento ricoperto da soldatini, che si muovono uno sull’altro come formiche impazzite, frenetiche e brulicanti, a richiamare la vita e la morte al contempo.
Mentre il caos invade ogni cosa, in fondo alla sala incombono aggressivamente i cento
Ritratti di famiglia, a formare una sorta di affresco, in cui il bel mondo del fashion e del patinato viene contaminato e degradato da una singolare bestialità. I soggetti pubblicitari che diventano metaforicamente animali, anche domestici – con un rimando sarcastico alla tradizione che vuole l’animale simile al proprietario -, al contrario di quanto avveniva nelle foto familiari, che un tempo indicavano la presa di coscienza di uno status identitario, non sono altro che simulacri di una non-esistenza.
E se è questa la realtà che vogliamo costruire, una realtà che cancella irrimediabilmente il significato autentico delle cose, l’inferno che ci ritroviamo addosso è la nostra stessa condanna alla vacuità eterna.