Il nuovo viaggio nelle vie recondite della geografia immaginaria di Marco Campanini (Parma, 1981) si sposta questa volta tra di corsi d’acqua e le mappe cartografiche estratte dagli archivi antichi. L’allestimento è minimale, focalizzato sul bianco delle fotografie -distanziate in modo calibrato- e il nitore delle pareti, un concentrato di poche opere per creare l’idea di un effettivo percorso all’interno dello spazio espositivo.
In questa nuova ricerca territoriale -che anche in questo caso trova la sua matrice in primo luogo nella passione per lo studio della filosofia e della semiologia- convivono istanze espressive diversificate. La fotografia non è più mera documentazione, bensì strumento di analisi e riflessione, si mostra linguaggio letterario più che modalità estetizzante, seppure l’estetica non sia mai in un certo senso disgiunta dal resto. A livello strettamente geografico, a differenza dell’Atlante, l’isolario, storicamente precedente, rappresenta il mondo da una prospettiva anziché terrestre, marina. Contiene pertanto un carattere di dispersione, non appare come un territorio circoscritto e ben delimitato. Le terre emerse sono quasi astratte, rarefatte. Come lo spazio della mente, è un luogo di non finitezza. Un raggruppamento di “isole” che diventa, come capita in tutte le fotografie di Campanini, non una semplice proiezione cartografica ma area semantica e metaforica. Poiché oltre ad essere luogo in senso fisico e concreto lo è anche sul piano concettuale. Un paesaggio-miraggio, dove la funzione narrativa non descrive, ma allude soltanto. Un mondo immaginifico dove perdersi e viaggiare con la mente.
A differenza dell’atlante ghirriano, a cui in un certo senso fa riferimento, che fermava la fissità icastica dei segni, l’isolario di Campanini intende evocare un flusso continuo, una dimensione dinamica di percorribilità, una spazialità in un certo senso virtuale, una dimensione attraversata da continue metamorfosi e fortemente caratterizzata dall’elemento simbolico. Il tentativo è quello di evocare un disperdersi attraverso la rarefazione delle immagini, di mettere in atto una trasformazione e una rigenerazione dei segni nel tempo. Campanini focalizza in questo modo l’obiettivo essenzialmente sul pensiero. Il mezzo fotografico diventa così efficace strumento di rilettura, illusionistico e visionario insieme, “uno scandagliare le forme del simbolico, storiche e possibili”, come afferma lui stesso. Un mezzo per esprimere una poetica connotata in fondo da un lirico esistenzialismo, in cui lo stesso uso del colore e della messa a fuoco contribuisce a creare differenti “isole” cromatiche. Tracce appena leggibili tra la sfocatura e l’abbaglio della luce, che affiorano da quell’indistinto oceano bianco del fondo.
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francesca baboni
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