Per la seconda volta la chiesa di San Vincenzo a Modena ospita Walter Mac Mazzieri.
La prima volta fu nel 1976, Mazzieri (che si è aggiunto, a mo’ di vezzo, il celtico ‘Mac’ davanti al nome) aveva quasi trent’anni ma era già un pittore maturo, sicuro della sua strada, e aveva già imparato a girare il mondo sia per conoscere che per farsi conoscere come artista.
La seconda volta è questa, a poco più di due anni dalla sua scomparsa: un’esposizione fortemente voluta dalla moglie, segretaria della Fondazione che porta il nome di Walter, e sostenuta dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Modena. A curarla è Michele Fuoco, che ha saputo radunare nel catalogo le diverse sfaccettature di questo pittore apparentemente semplice, onirico, infantile, favolista e sognatore, ma in realtà colto, attento, appassionato lettore di Omero, di Kafka, conoscitore dei miti e delle leggende della sua terra e delle altre terre, tutte quelle incontrate viaggiando con le tasche vuote da solo o in compagnia di due amici scultori lungo l’Europa e l’Africa.
Il fascino che le sue opere emanano sale lentamente, e lentamente diventa consapevolezza. Paradossalmente, perché se c’è un merito da riconoscergli è quello di aver saputo fondere tutti i ricordi, suoi o collettivi, memorie personali o della società appenninica nella quale è nato, e ancora ricordi di mille altre società e di altre culture, mantenendo lo sguardo ad altezza uomo. Sono uomini quelli che lui ha incontrato, ciascuno con un suo sogno e un suo ricordo.
Così, tutte le favole che racconta in pittura hanno lo stesso sapore malinconico dei ricordi leggendari di un tempo che fu, il lento cadenzarsi delle fiabe contadine accanto al fuoco, la fantasia di mostri e draghi, serpenti e visioni dei bambini persi in mezzo al bosco.
I suoi quadri, coloratissimi, dominati dal blu oltremare che accentua però il senso di malinconia, ospitano figure a metà fra l’uomo e gli animali, veri anch’essi o leggendari, o fantasiosi, con la testa sprofondata nelle mani, con lo sguardo perso, esseri mutanti. E’ stato chiamato in causa il Surrealismo, quello degli occhi piangenti di Dalì, ma soprattutto quello delle stanze “sottovuoto” di Magritte, o delle figure di Ernst, ma anche gli animali di Ligabue, e ancora le Muse di De Chirico o le fantasie di Alberto Savinio. Ma c’è dell’altro, ci sono almeno i ricordi dei grifoni e del bestiario medievale del Duomo di Modena, e soprattutto ci sono gli idoli indios, quei profili inconfondibili e gli zigomi pronunciati degli Incas o dei Maya. Un dialogo aperto con i muralisti messicani, con Ribera, con Siqueiros, spogliato delle loro intenzioni politiche e della forza della loro lotta, ma pur sempre vero, perché ancora una volta un dialogo al livello dell’uomo.
Tre le fasi individuate nella mostra: la prima, quella del ricordo forte dell’infanzia, che tuttavia rimarrà come sottofondo anche nel resto della sua produzione; la seconda, legata a Venezia e al suo soggiorno di due anni nella città lagunare, a metà degli anni Ottanta, testimoniata dall’emergere deciso del blu e dalla comparsa di scorci di città; e infine la terza, segnata dall’amicizia profonda con lo scultore Biolchini.
Dispiace solo, di questa mostra, aver costretto opere così ‘dense’ e fortemente caratterizzate in uno spazio espositivo anch’esso forte, e splendido, come quello di San Vincenzo. Gli organizzatori ne sono consapevoli, ma la scarsità di spazi espositivi ha costretto ad una scelta che se non premia la mostra in sé consente quantomeno, per il periodo di apertura, di visitare la chiesa.
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Numero 332, Aprile 2001 – Arte
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Volevamo apprendere notizie sulla letteratura medievale per una ricerca scolastica, tuttavia nel vostro sito non abbiamo trovato le risposte desiderate, vi siamo comunque riconoscenti delle pillole di saggezza scritte in queste pagine cibernetiche, noi preferiamo rivolgerci comunque ai vecchi metodi tradizionalistici, perderemo tempo, ma risparmieremo denaro e nervi. Grazie comunque è stato divertente!