Debora Romei (Castelnovo ne’ Monti, Reggio Emilia, 1970) sceglie come punto di partenza per la sua ricerca pittorica il corpo. Attraversando l’epidermide e scegliendo di analizzarlo dall’interno. Come massa organica e fluida, cellula in divenire e filamento. La genesi di Romei si compie da qui, attraverso una scarnificazione che arriva ad una sintesi pittorica estrema, dove la corporeità si traduce sotto forma di bozzoli ibridi e polimorfi. Dove la rarefazione sintetica del segno va a giocare sugli spazi e sugli equilibri, su sensazioni che s’incrociano con una modalità estremamente fluida. La visione delle forme -che rasentano l’astrazione e s’intrecciano sugli sfondi delimitando la costruzione strutturale dell’opera- sia orizzontale che verticale, mostra difatti una rappresentazione ermetica del dato organico. Ciò che è, in continua mutazione, con metamorfosi che si fanno via via sempre più astratte nelle opere di grandi dimensioni. I segni si trasformano, diventano strumenti chirurgici, rimangono in sospensione sempre verso un oltre non del tutto visibile.
Colpiscono gli sfondi fluorescenti, i contrasti forti e mai stridenti dei colori difficili scelti per la stesura; colpisce pure l’impossibile del fluo. Le poche pennellate delimitano l’oggetto come fosse un’escrescenza in fase di materializzazione, un agglomerato pulsante. Debora Romei smaterializza così la struttura corporea. Il corpo viene destrutturato come forma e diviene un insieme informe, a stento riconoscibile. I reticolati si fanno di opera in opera sempre più evidenti, amalgamandosi fra loro. Le terminazioni nervose sono filamenti si estendono al di fuori dello spazio–quadro, per proseguire un
La pittura c’è ed è solida. Una stesura che sicuramente non segue la linea tipica della odierna figurazione pittorica italiana, ma si avvicina maggiormente ad una visione americana che trova le sue radici nel minimalismo nichilista o segue a tratti la linea dell’espressionismo.
Esperimento riuscito sono anche le due macro-installazioni al centro della sala, realizzate per l’occasione: Vuoto al centro, tubi corrugati volutamente sospesi a pochi cm dal suolo come strutture architettoniche interne al corpo, e Senza titolo, tre rami lunghi sette metri legati insieme, uniti e appesi con catene. Un discorso che parte dall’albero trattato come corpo e forma embrionale, fasciato di viola (a rappresentare entrambi i sessi) ad indicare una sessualità che fuoriesce dagli schemi, senza alcuna definizione, con il vincolo della catena a simboleggiare la parte psicologica, le infrastrutture, l’architettura della mente. Elemento, quello cerebrale, che risulta fondamentale in una ricerca tutt’altro che superficiale, al contrario così strenuamente concettuale e pura, che sonda nelle cavità nell’organismo arrivando ad integrarlo in tutto e per tutto con il dato strettamente psicologico. Mostrando da una parte il senso di un’umanità sofferta e l’ambiguità insita nella dualità sessuale e dall’altra le infinite possibilità del divenire umano.
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francesca baboni
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