Che cosa resta dell’opera d’arte se l’autore si abbandona all’automatismo del mezzo tecnico? Per il suo nuovo lavoro,
Francesco Nonino (Udine, 1960; vive a Bologna) si comporta come una delle tante videocamere di sorveglianza che controllano le città contemporanee. Punta l’obbiettivo su tre ambienti urbani apparentemente anonimi – la facciata di un palazzo popolare, un parcheggio, un parco – e scatta un fotogramma al secondo per alcune ore. Ne nascono tre video di 2 minuti in cui il tempo, rappresentato da una carezza di luci e ombre, scorre veloce e sempre uguale a se stesso.
È voyeurismo solo apparente. L’impersonale occhio della videocamera, infatti, si accorge a malapena della vita che scorre sotto il suo obbiettivo: l’uomo è una sorta di fantasma, un’immagine mossa e fuori fuoco, un evento insignificante e casuale. Riprodotti in loop su piccoli televisori da 20 pollici, i video danno vita a un universo minimale di poetica banalità. Così, il primo a smaterializzarsi insieme all’autore è proprio il soggetto, il quale sembra dovere la sua esistenza all’empatia di un occhio umano.
L’intera scena è assorbita dall’architettura urbana, l’habitat umano. L’andirivieni degli abitanti nel palazzo-alveare di periferia è meccanico e insignificante, lontano dai soggetti, dalla loro identità e storia. Già nel 1964, con
Empire,
Andy Warhol aveva lasciato lo spettatore solo con l’immagine apparentemente immobile dell’Empire State Building, ripreso per lunghe ore.
Ma il progetto di Nonino va oltre. Il fotografo riparte, infatti, da questo materiale impersonale per indagare discretamente il quotidiano rapporto dell’uomo con l’ambiente. Arrivando a suggerire allo spettatore, attraverso l’allestimento, un percorso quasi narrativo fra le scene di quotidianità annidate nello spazio urbano.
Le pareti della galleria vengono infatti animate da un mosaico di ritratti. Accanto a ciascun video, centinaia di ingrandimenti 19×15 si dispongono a scacchiera in ordine cronologico, rivelando uomini e donne sorpresi in faccende qualsiasi. È un occhio discreto e indulgente quello che si sofferma su un personaggio solo per passare al seguente, molto lontano dalla morbosità del dettaglio. Più che una storia in particolare, è l’umanità che si racconta, sotto lo sguardo vagante dell’osservatore. Uno sguardo che tende a fondersi con l’ambiente, e a immedesimarsi, magari proprio con l’anziana che osserva curiosa la strada o con il giovane che guarda distratto, fumando una sigaretta in terrazza.
Uno sguardo che, nell’ingrandimento forzato del dettaglio, sfuoca i contorni e deforma i corpi, ridotti a presenze di cui non possiamo non sentire la mancanza. Si riafferma così il ruolo dell’autore, che ammette: “
Ho scelto i luoghi in cui vivo”. Tradendo così un coinvolgimento tutt’altro che asettico e un interesse non solamente etnografico.