Sembra la distopia
1984 di Orwell, ma siamo alla personale
89-91 Sites of Technology di
Lewis Baltz (Newport Beach, California, 1945; vive a Parigi), inaugurata a Modena durante il Festival Filosofia, dedicato quest’anno al tema del sapere. Le foto di grandi dimensioni documentano un ciclo realizzato dal 1989 al ‘91, che indaga le strutture di sviluppo tecnologico e scientifico. Appartengono alla trilogia
Ronde de Nuit,
Docile Bodies,
Politics of Bacteria: ritratti delle multiple forme di sviluppo e potere assoluto sugli esseri umani attraverso le macchine della scienza. Baltz disseziona questa rete di laboratori, invisibile in superficie, tramite una documentazione distaccata ma analitica, che ne porta alla luce l’atmosfera fredda, clinica, segreta da
restricted area. Impossibile localizzare geograficamente questi siti neutri e inanimati, perché si assomigliano tutti. Solo le didascalie raccontano della loro diversa provenienza: Francia, Giappone, Svizzera, Italia.
In queste stanze claustrofobiche, spesso sotterranee, zeppe di computer, telecamere, cavi e tecnologia d’ogni genere, dove anche la luce è sempre artificiale, gli esseri umani sono assenti o ridotti unicamente a solitari sacerdoti di un culto in cui è la macchina a “vivere”. Tra un lungo silenzio e un ronzìo, l’unica voce immaginabile è quella senza emozioni di HAL 9000 in
Space Odyssey di
Kubrick.
La tecnologia è quella della fine degli anni ’80 e appare anche agli occhi di un profano molto ingombrante, obsoleta, talvolta goffa, monotona e ripetitiva. Ma c’è poco da scherzare.
Lo sguardo scorre così sulle superfici lisce e metalliche degli armadi-elaboratori della centrale di controllo della Toshiba in
Intelligenza artificiale, Toshiba, Kawasaki City (J), sulle sale blu e bianche dell’
Organisation Européenne pour la Recherche Nucléaire (CERN), Ginevra, su un’apparente sala di tortura piena di cunei in
Camera anecoica, Laboratori France Télécom, Lannion, sul laboratorio-ambulatorio in cui luce e oscurità sono separati come medico e paziente da un teatrale sipario nero (
Agenzia spaziale giapponese, Toshiba, Kawasaki City (J)) o sull’ospedaliera
Operatore, Stanza sterile della stessa città.
Asettica è anche l’atmosfera priva di vita di
Telecamera di sorveglianza, Matra Transport (FR), abitata soltanto da una vecchia JVC, che rimanda all’importante ciclo in bianco e nero
Surveillance video -non presente in mostra- in cui Baltz sceglie di stampare anonimi fotogrammi ripresi da telecamere a circuito chiuso di banche, autostrade, fabbriche.
Linee elettriche, Roma è l’unica foto che ritrae il mondo esterno, ma irreversibilmente tecnicizzato: un palo dell’alta tensione, un “albero elettrico” sbuca fra le chiome verdi dei suoi “fratelli” platani. Niente di nuovo, si dirà, ma a fine percorso una domanda s’insinua come un brivido lungo la schiena: “Siamo ancora noi che guardiamo le macchine o le macchine che guardano noi?”. Semplice, siamo noi che guardiamo noi stessi, ciò che siamo diventati. E non ce n’eravamo neanche accorti.