All’inaugurazione non mancava niente: l’artista era
presente, il pubblico numeroso ed elegante, c’erano pure i buttafuori a
garantire l’ordine e la compostezza, perfettamente in linea con la raffinatezza
della mostra. Eppure persisteva la stessa sensazione nata fra gli stand di Arte
Fiera e l’estenuante tour d’inaugurazioni collaterali durante la notte bianca.
Michael
Joo (Ithaca, New
York, 1966; vive a New York City) piace ed era allettante l’idea di vedere una
retrospettiva del suo polimorfo lavoro, e forse è questo ad aver creato
aspettative che non hanno trovato soddisfazione.
Tornare dopo l’orgia presenzialista (che non permette di
vedere veramente niente, ma solo di discuterne un po’) ha indicato una serie di
opere che nella loro lucidità rispecchiano i tempi, che magari non piacciono,
ma che hanno bisogno di cose rassicuranti.
Quindi, spazio al quadro e alla scultura, intesa in modo
quasi classico, anche nel materiale: un bronzo lucidissimo. Joo però non riesce
a rinunciare alla sua passione sezionatrice e, fra le strisce della
protagonista incontrastata, la zebra, vediamo una minuziosissima
rappresentazione delle fasce muscolari, di vene e tendini inseriti come corpi
estranei anche nelle tele, fra le striature onnipresenti dell’esotico equino.
La fascinazione che quest’artista americano di origini
coreane ha sempre avuto per il mondo della biologia è evidente e lo unisce con
continuità ai suoi soggetti. Così quelle strisce non appartengono solo alla
zebra, ma sono dell’artista stesso: le sue impronte digitali, il massimo grado
di unicità identificativa, slittano verso un’uniformante cortocircuito che lega
creatore e creatura.
Le opere sono poco più di una dozzina, per lo più tele con
striature realizzate con un materiale plastico lavorato a mano, ma quelle che
colpiscono maggiormente sono
Mongoloid Version B-29 (Miss Megook Painting
#3),
l’autoritratto dipinto sulla fusoliera di un aereo americano utilizzato durante
la guerra in Corea, il pezzo più vecchio in mostra;
Stubbs (Absorbed), la statua raffigurante la zebra
a grandezza naturale, abilmente posizionata dove un tempo si trovava l’altare
dell’ex chiesa, prestata nientemeno che dall’amico-collaboratore
Damien
Hirst; e
Consistent-Seen-Touched, la zebra in miniatura adagiata
su uno spropositato vassoio, la cui forma ricorda quelli utilizzati
nell’ipotetico laboratorio che analizza i tessuti e gli animali che ammaliano
Joo, come le belle corna generosamente abbandonate da un alce e pazientemente
raccolte sezionate e rimontate dall’artista,
Improved Rack (Elk # 16).Il resto sarà anche in linea con i tempi, sarà anche stato
esposto in tutti i luoghi in cui bisogna esporre, ma fa rimpiangere le alci
sospese che contenevano le telecamere che registravano i volti e le espressioni
del pubblico stupito, quello d’altri tempi.
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Mi sfugge il nesso fra buttafuori e raffinatezza.